Giovanni Pellielo ha vinto la medaglia d’argento nel tiro al piattello ai Giochi di Rio. Sul podio della vita però c’è Dio e ha scelto di farlo sapere. Per incontrare Giovanni Pellielo, quattro medaglie in quattro Olimpiadi nel tiro a volo, occorre addentrarsi nei campi attorno a Vercelli.
Lui che ha ricevuto proposte dai luoghi più lussuosi del mondo, vuole continuare a vivere «nella semplicità delle risaie. Se sono nato qui», spiega con grande serietà “Johnny”, nato nella cittadina piemontese quarantasei anni fa, «un senso ce l’ha e, visto che non so qual è, non posso arrogarmi il diritto di andarmene. Credo che il mio successo sia estremamente legato alle mie origini e non voglio per nulla al mondo abbandonarle».
Una breve telefonata ritarda l’inizio del racconto: «Mi spiace, ma non posso… vado in Africa dai miei bambini». Alla domanda sulle attività benefiche che svolge da decenni otteniamo in risposta solo monosillabi, ma quando si inizia a parlare di fede, la riservatezza tutta piemontese di Pellielo si trasforma in un fiume di parole. Perché «in fondo si tratta solo di rompere un piattello. Se tutto finisse qui… Il vero sportivo deve essere una presenza che va oltre».
È vero che pagava i suoi primi piattelli grazie al lavoro da segretario in un centro di tiro a volo nei weekend?
«Vero, vero. Sono figlio di genitori separati, mia madre lavorava in fabbrica e il suo stipendio non mi permetteva di svolgere attività sportiva. Credo che dietro ai grandi sportivi ci siano quasi sempre storie di grandi sofferenze e sacrifici. La determinazione a vincere, forse, è un po’ anche una rivalsa nei confronti di una vita in cui magari sei stato costretto a subire. Ho undici fratelli da parte di mia madre, e tutti sparavano. Ho iniziato con loro, che tiravano a livello provinciale. Soffrendo di asma, mi sembrava che, rispetto ad altri sport, questo necessitasse di una minore fisicità. Ma sbagliavo clamorosamente perché, se non ci sono le tettoie, sei sotto il sole, sul cemento, a 50 gradi per otto ore al giorno, estate e inverno, neve o nebbia che sia».
Come mai il suo centro sportivo si chiama “Tiro a volo San Giovanni”? «San Giovanni, colui che urlava nel deserto, è il mio santo. Anch’io un po’ mi sento un urlatore nel deserto. A volte, quando bisogna portare annunci forti, c’è bisogno di tanto deserto. E il deserto si abbina molto bene al mio sport, in cui il silenzio ha un ruolo fondamentale: metti i tappi elettronici, le cuffie, e inizi a sentire il respiro, il battito cardiaco, il sangue che scorre. Inizi a parlarti. Poi vai in pedana e spari. È un continuo ascoltarsi, in un silenzio che non sopporta nemmeno il parlare». In silenzio otto ore al giorno, tutti i giorni. Difficile? «Non è una cosa semplice per il mondo di oggi. È chiaro che chi fa uno sport come il mio deve avere una mentalità diversa, non aver paura di vivere la propria individualità fino in fondo. Solo nel silenzio si ascolta qualcosa di più sublime». Cos’è il centro San Giovanni? «Non è solo un luogo in cui si pratica lo sport, ma l’espressione di valori all’interno dei quali c’è anche lo sport. Lo si capisce fin dall’ingresso, dalla statua della Madonna di Lour- des. Perché il centro San Giovanni è la Lourdes del tiro a volo (ride). Arrivano tante persone e, dialogando con loro, mi rendo conto che l’ultimo dei loro problemi è rompere il piattello. E poi qui vengono tiratori musulmani, induisti dall’India e da tutte le parti del mondo. In queste occasioni d’incontro mi sono reso conto che si è creata una sinergia, potrei dire una condivisione, che è qualcosa di raro in un mondo che vuole essere globale ma ha paura dell’integrazione». La sua “missione” ha avuto inizio nel 2000, grazie a un’udienza con papa Giovanni Paolo II… «In quell’occasione Wojtyla esortò a non aver paura di essere testimoni della Verità. Poi, rivolgendosi solo a me, mi ripeté due volte: “Vai avanti!”. La mia fede era già abbastanza radicata all’epoca, ma da quel momento è cambiato il coraggio di viverla, soprattutto in un mondo così particolare come quello sportivo. Quel “Vai avanti!” me lo sono ritrovato sedici anni dopo, all’Olimpiade di Rio. Me lo sono portato dentro in ogni piattello che tiravo. Senza quella frase non avrei avuto quella forza, e non l’avrei ora nel guardare alla prossima Olimpiade. Per me, poi, è anche un invito ad affrontare le difficoltà della vita. Quando, nel 2013, è mancato mio padre, ho capito quante volte dicevo agli altri “Ti capisco” mentre in realtà non capivo nulla». È stato a seguito di quell’incontro che si è fatto costruire una cappella in casa? «Sì, perché per gente immersa nel mondo come me è importante avere la propria catacomba: è un modo per avere più forza. E poi i segni sono importanti». Ho saputo che è affezionato ai testi del papa emerito Ratzinger… «Vero. Di sera davanti al computer, magari già nel letto, mi leggo qualche sua pagina. Se durante la giornata ho delle distrazioni che mi portano lontano dalla Verità, queste letture mi riconducono a essa. È una cosa che faccio con grande semplicità e, come nel Vangelo, scopro sempre qualcosa di nuovo». Lo scorso anno ha incontrato invece papa Francesco, in occasione della Messa degli sportivi a San Pietro… «E mi ha parlato in dialetto piemontese. Mi ha detto: “Me anduma? Forsa, forsa!”. Mi ha fatto tornare in mente l’incontro di quindici anni prima con Giovanni Paolo II. Entrambi sono personaggi unici e straordinari». Alcuni anni fa ha fondato il gruppo di solidarietà “Team Shooting J. P.”. Come stemma ha scelto la croce e la celebre frase “In hoc signo vinces”. Cosa significa per lei? «Solo in quel segno, quello della croce, si può vincere nella vita, intendendo la vittoria come partecipazione ai frutti e ai benefici della presenza del Cristo, quindi la vita eterna. È quella la medaglia d’oro olimpica». Tornando alle pedane… Qual è stata la sua vittoria più bella? «Tutte le competizioni che ho vinto sono la vittoria più bella. Ma anche le gare in cui sono andato molto bene, pur non vincendo. Sono il frutto dei sacrifici fatti. Ma la cosa più bella di tutte è la quotidianità: essere qui, dal lontano 1988, a segnare ancora pezzi di storia nella mia disciplina». E nella vita, cosa considera una vittoria? «Essere capace di stare vicino alla sofferenza. La vittoria più bella, poi, sarà quella di migliorarmi in senso spirituale, riuscendo magari a essere meno dubbioso, più forte nei momenti di prova. L’anno della morte di mio padre, per esempio, non cantai il Te Deum, perché facevo fatica a ringraziare. Siamo tutti capaci di essere santi quando va tutto bene…Per fortuna do alle cose il giusto peso, ma faccio ancora fatica a dare un senso alla sofferenza e alla morte». Dopo la prima medaglia olimpica di Sydney era stato festeggiato nella casa circondariale di Vercelli. Dopo quella di Rio? «Organizzeranno un’altra festa, devo portare la medaglia. Sono esperienze che mi lasciano una grande pienezza, perché è bello condividere. L’argento a Rio è stato un trionfo di partecipazione umana: migliaia di messaggi, è stato davvero straordinario. Ed è una delle cose belle della vita la condivisione di quel momento con tutti, perché è un momento di tutti. L’errore può essere quello di assolutizzarli. Si chiamano momenti di gloria proprio perché vanno condivisi e vissuti come tali. La vita è un’altra cosa».
CHIESA E SPORT SÌ A QUELLO SANO
La pratica sportiva stimola un sano superamento di se stessi e dei propri egoismi, allena allo spirito di sacrificio e, se ben impostato, favorisce la lealtà nei rapporti interpersonali, l’amicizia, il rispetto delle regole». Papa Francesco l’aveva detto ai delegati dei comitati olimpici europei nel 2013. E durante Rio 2016 ha lanciato un appello per la pace, invitando tutti a gareggiare per costruire «una civiltà fondata sul riconoscimento che tutti siamo membri di un’unica famiglia umana, indipendentemente dalle differenze di cultura, colore della pelle o religione».
LO SPORT IL TRAP MASCHILE O FOSSA OLIMPICA
Le origini di questo sport risalirebbero alla seconda metà del XIX secolo quando negli Stati Uniti prese campo l’hobby del tiro a segno su un bersaglio costituito dalle palline di vetro, del tipo di quelle usate per gli addobbi natalizi. Le palline venivano lanciate da speciali strumenti, chiamati balltraps (da cui il nome attuale trap usato per indicare il tiro classico, oggi denominato fossa olimpica o fossa universale). La carriera sportiva di Giovanni Pellielo è cominciata nel giorno del suo diciottesimo compleanno quando la madre, che da anni praticava questo sport, lo ha accompagnato per la prima volta su un campo da tiro. Ha vinto 4 medaglie olimpiche, 10 titoli mondiali e 12 titoli europei.
Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it/Elisa Bertoli)