Anche a Gaza riaprono le scuole. Ma con i banchi troppo vuoti!

Aktham Hijazin, responsabile delle scuole del Patriarcato latino di Gerusalemme: «Non sarà facile fare l’appello». E ancora: «Prima dei libri è necessario aprire i cuori, raccontarci ciò che abbiamo vissuto»

Triste primo giorno di scuola quello per i bambini della Striscia di Gaza domenica 14 settembre. Il suono della campanella avrebbe dovuto riportare in classe 241mila studenti in 252 scuole. Nei 50 giorni dell’operazione militare israeliana “Margine protettivo” le scuole danneggiate sono state più di 220 e tutt’ora almeno 26 edifici scolastici offrono riparo a famiglie rimaste senza abitazione. Per questo motivo sono stati programmati i doppi turni, con insegnanti e studenti che si alterneranno nelle scuole disponibili. Negli scontri tra Israele e Hamas hanno perso la vita, secondo l’Unicef, almeno 501 bambini e oltre 3.374 sono stati feriti.

«Numeri che feriscono», spiega padre Aktham Hijazin, responsabile delle scuole del Patriarcato latino di Gerusalemme che a Gaza gestisce direttamente due istituti con oltre mille studenti, il 90% è musulmano, con circa cento docenti. «Accogliendo i bambini musulmani insegniamo la tolleranza, la convivenza e il rispetto reciproco, costruendo ponti e non muri. Educhiamo, in poche parole, alla pace», racconta il sacerdote che crede che «questa è la strada giusta da seguire per contrastare il fondamentalismo crescente nella Striscia ed evitare altre guerre in futuro». Ma intanto bisogna fare i conti con il disastro provocato dalla guerra appena finita, sebbene si sia raggiunto “solo” un accordo di tregua e non di pace. «Non sarà facile – dice – fare l’appello. Il grande e concreto timore è che tanti banchi resteranno vuoti. Quanti bambini morti? Quanti quelli feriti e mutilati che non potranno, almeno all’inizio, frequentare le lezioni?». Domande che avranno presto una risposta. Intanto bisogna pensare a tutti quelli che riprenderanno le lezioni e per i quali la felicità del ritorno in classe è stata cancellata dal peso della violenza di questi giorni.

«Tornare a scuola non sarà facile – ammette sconsolato don Hijazin – non possiamo chiedere ai nostri alunni di aprire subito i libri. Prima dei libri è necessario aprire i cuori, raccontarci ciò che abbiamo vissuto, ciò che di male abbiamo visto. Psicologicamente sono bambini e giovani distrutti». Per alleviare la loro sofferenza abbiamo voluto, di concerto con il nostro team di sostegno psicologico, dedicare la prima settimana di scuola al gioco, alla condivisione, a portare avanti attività utili a far uscire l’angoscia e la paura che si portano dentro. Con loro ci saranno anche i docenti, che nonostante abbiano anch’essi sofferto perdite e subìto danni, si prodigheranno per essere vicini ai bambini e ai ragazzi. Hanno bisogno di parlare di comunicare. Hanno vissuto per circa due mesi chiusi in casa, sotto le bombe, al buio, spesso senza cibo e acqua, hanno visto morire i loro cari ed ora sono traumatizzati». Nel frattempo proseguono i lavori di risistemazione delle scuole. In quelle del Patriarcato da molti giorni opera una squadra di operai specializzati per ripristinare bagni, impianti elettrici, finestre e infissi vari, tutti danneggiati dalle bombe o in qualche modo utilizzati dalle migliaia di sfollati interni assistiti dalla Caritas Jerusalem. «Bisogna rimettere a posto ogni cosa – afferma il sacerdote – e dare così alle scuole la loro originale funzionalità. È una corsa contro il tempo per rimettere a posto vetri alle finestre, tende, banchi, lavagne e sedie». Un lavoro da oltre 150mila dollari. E non importa se tante famiglie non potranno pagare la retta. «Come puoi chiedere ad un padre di famiglia che ha perso tutto, casa e lavoro, di pagare? Da parte nostra non chiederemo nulla, chi potrà e vorrà darà il suo contributo. Pagheremo i nostri docenti ugualmente. Non so quanto riusciremo a fare – dice speranzoso – importante sarà che al suono della campana la scuola non abbia visibili i segni della guerra e della violenza. È difficile perché fare entrare nella Striscia di Gaza i materiali necessari a ricostruire non è semplice. Ma questi bambini meritano qualcosa di bello e colorato».

Tuttavia corre l’obbligo di raccontarla e di rielaborala questa ennesima guerra, senza cadere nel vortice dell’odio e del risentimento che pure si fanno strada tra gli alunni di Gaza. Come pure nei testi di scuola. Ne è consapevole padre Hijazin che sa bene come i più piccoli tra gli alunni abbiano, ormai, sulle spalle già tre conflitti con tutto il loro carico di rancore mal celato. «Insegnare a Gaza oggi significa riedificare i cuori e le vite dei più giovani. Rialzare case, palazzi, scuole e strade non basta più. Il rischio concreto che abbiamo davanti è quello di altra violenza, di altre morti, di altra distruzione».

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