Categorie: Corpus et Salus

Anche i giovanissimi rinchiusi nel Cie: le storie di Ronny e Kayoum

Se mi mandano in Albania, quello per me è un paese straniero” dice un ventenne cresciuto in Italia dall’età di tre anni. “Piango tutti i giorni” racconta un bengalese di 18 anni il cui fratello vive a Tarquinia…

Ronny e Kayoum sono due ragazzi giovanissimi. Il primo ha 21 anni ed è un “seconda generazione”, un italiano di fatto, figlio di migranti cresciuto in Italia ma con passaporto albanese. Il secondo ha 18 anni e mezzo ed è un migrante di prima generazione, arrivato in Italia dal Bangladesh nel 2012 da minore e da solo. Ronny è spigliato, diretto, parla con un accento del centro Italia. Kayoum riesce a dire a stento due parole di italiano e afferra le sbarre del cortile con lo sguardo sperso e gonfio di sofferenza.

Entrambi sono trattenuti nel Cie di Bari, dal quale dovrebbero essere rimpatriati nei rispettivi paesi d’origine. Storie differenti che mostrano come nel Cie si possa finire per un’applicazione alla lettera della normativa che non tiene conto delle storie individuali.

“Mi chiamano tutti Ronny e sono in questo paese dal 1996 – dice il ragazzo con gli occhi azzurri, i capelli rasati e il fare deciso – avevo tre anni e arrivai dall’Albania con i miei genitori e mia sorella. Andavamo a Giulianova in Abruzzo dove vivevano da tempo dei nostri parenti, qui ho studiato, dall’asilo fino alla licenza media”. Ronny è finito nel Cie perché ha perso il diritto al permesso di soggiorno a causa di reati commessi da minore. Non dice di quali precedenti penali si tratta. “Sono pulito da cinque anni, ho scontato tutto e da un anno e mezzo sono fuori dal carcere, senza altri problemi”, racconta. “Senza contratto non mi danno il permesso di soggiorno, ma senza permesso non posso avere un lavoro” è la sintesi perfetta della legge Bossi Fini che fa. “La mia famiglia è qui – continua – i miei cugini sono sposati con italiani, ho uno zio che ha il bar a Lucca e uno che fa il tecnico informatico a Milano. Sono cresciuto qua, se mi mandano in Albania mi mandano in un paese straniero, sono sette anni che non ci metto piede. Mio fratello è cittadino italiano”.

Kayoum invece era appena maggiorenne quando la polizia è andata a prelevarlo direttamente nella casa in cui abita a Tarquinia con il fratello Sumon. A soli 16 anni Kayoum si è messo in mano ai trafficanti per arrivare dal Bangladesh e il viaggio, costato migliaia di euro, l’ha pagato la sua famiglia. L’ultimo tratto è stato quello che ha fatto nascosto in una nave dalla Grecia. A Tarquinia, dove il fratello Sumon lavora come muratore e giardiniere regolarmente con partita iva e ha una casa in affitto, anche Kayoum faceva gli stessi lavori ma in nero, perché non ha trovato nessun datore di lavoro italiano disposto a regolarizzarlo. Il fratello Sumon racconta che nonostante il lavoro e la casa in regola, la polizia andava a controllare i suoi documenti ogni settimana. “Tanto che ho avuto paura – dice Sumon al telefono – e ho pensato che ci fossero problemi per la casa e così ho cambiato anche casa per questo motivo. Ma gli agenti mi dicevano di stare tranquillo, che era tutto a posto”.

In uno di questi frequenti controlli dei documenti, in casa hanno trovato Kayoum, appena 18enne e l’hanno portato via. “E’ successo l’8 dicembre – racconta Sumon – poi lui è scappato e il 9 l’hanno ripreso e portato al Cie di Bari”. Kayoum sostiene che gli agenti lo avrebbero anche picchiato al momento del fermo nel Lazio. Poi è stato trasferito a Bari. “Sono qui da quattro mesi – dice il ragazzo – piango tutti i giorni”. di Raffaella Cosentino*

*Fonte: www.redattoresociale.it

 

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