È veramente prezioso il richiamo recentemente fatto da Papa Francesco a quella che resta, di fatto, l’enciclica meno compresa e meno apprezzata nella storia dei pontificati dell’età contemporanea. Ancora oggi, nell’opinione di tanti, evocare l’Humanae vitae di Paolo VI significa richiamare uno tra i testi emblematici della chiusura del mondo cattolico alla modernità, prototipo della sua incapacità a capirla.
Anche l’anniversario dei quarant’anni dalla sua pubblicazione, caduto nel 2008, è quasi completamente caduto sotto silenzio. La sola eccezione di rilievo fu, di fatto, il convegno che si tenne nel maggio di quell’anno a Roma presso la Pontificia università lateranense, i cui atti sono stati poi pubblicati nel volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell’enciclica «Humanae vitae» (Roma, Lateran University Press, 2010), curato da Lucetta Scaraffia.
Nell’introduzione, Scaraffia nota come l’enciclica «vada alla radice dei problemi tra uomo e tecnica caratteristici della cultura contemporanea», rappresentando «il punto di partenza della riflessione bioetica in ambito cattolico».
Il libro presenta anche un testo poco noto scritto nel 1995 dal cardinale Joseph Ratzinger, che — in poche battute — coglieva, a venticinque anni dalla vituperata enciclica, lo spirito e il significato autentico di quel testo.
Dopo aver ricordato che «raramente un testo della storia recente del Magistero è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta», il cardinale Ratzinger, tra gli altri aspetti, si soffermava sulla obiezione contenutistica mossa al testo.
«Chi legge serenamente l’enciclica — scriveva il porporato — troverà che essa non è affatto impregnata di naturalismo o biologismo, ma è preoccupata di un autentico amore umano, di un amore, che è spirituale e fisico in quella inseparabilità di spirito e corpo, che caratterizza l’essere umano. Poiché l’amore è umano, per questo motivo ha a che fare con la libertà dell’uomo, e pertanto deve essere amore, che ama l’altro non per me, ma per se stesso. Per questo fedeltà, unicità e fecondità sono ancorate nella essenza interiore di questo amore. A Paolo VI sta a cuore difendere la dignità umana dell’amore umano e coniugale. Perciò la libertà — che nella sua essenza è libertà moralmente ordinata — è al centro delle sue riflessioni. Il Papa ritiene la persona umana capace di una grande cosa: capace di fedeltà e capace di rinuncia. Per questo motivo egli non vuole che il problema della fecondità responsabile — il controllo delle nascite — sia regolato in modo meccanico, ma che venga risolto in modo umano, cioè morale, a partire dallo spirito dell’amore e della sua libertà stessa».
Del resto — proseguiva Ratzinger — «se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un’idea troppo grande dell’essere umano, della capacità della sua libertà nell’ambito del rapporto spirito-corpo. Chi ha conosciuto anche solo globalmente la figura di Paolo VI, sa che non gli mancavano la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone. Intenzione dell’enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell’uomo contro una visione deterministica e materialistica. Egli parla nella prospettiva dell’eternità, nella sua responsabilità davanti alla totalità della storia».
«Sotto questo punto di vista» — concludeva Ratzinger — Papa Montini «non poteva parlare altrimenti, e a partire da questa prospettiva si deve leggere l’enciclica: come arringa in favore dell’umanità dell’amore e in favore della dignità della sua libertà morale. Qui si manifesta come Paolo VI, anche in questo punto, proprio in questo punto, parli come avvocato della persona umana; come la fede, che lo ispirava, difende la persona umana, anche là ove essa la sprona».
di Giulia Galeotti per L’Osservatore Romano, Archivio