La storia di oggi è quella di JP Gibson, un bambino americano di cinque anni ammalato di leucemia linfoblastica acuta: un tumore del sangue, per dirlo con parole semplici, che colpisce di preferenza in età infantile e che merita l’appellativo di “acuto” per la capacità di progredire molto velocemente. Una malattia abbastanza rara, circa un caso su centomila persone, che JP ha affrontato con tutte le armi disponibili nell’arsenale della medicina moderna. Ovvero una sola, la chemioterapia, perché oltre a quella non funziona bene quasi nulla.
Così, accanto ai farmaci, JP Gibson ha messo in campo i sogni, l’amore per la pallacanestro, il tifo per gli Utah Jazz. Guardando una palla a spicchi che entra nel canestro diventano più accettabili perfino gli aghi che ti infilano nel braccio per tentare di curarti. Imparando a palleggiare, con quella sfera troppo grande per le mani di un bambino, si può sognare di vivere in un mondo diverso, di essere grandi, alti più di due metri, fortissimi. E di giocare nell’Nba.
Qualche volta, anche se per un giorno, i sogni diventano realtà: e così JP Gibson, tifosissimo degli Utah Jazz, è stato messo sotto contratto dalla sua squadra del cuore. La mamma, essendo lui minorenne, ha firmato i documenti davanti alle televisioni come si fa per i grandi campioni. Gli hanno consegnato la maglia ufficiale con il numero uno e l’hanno invitato a partecipare alla partita inaugurale dell’anno, quella disputata in famiglia con il roster diviso tra bianchi e blu e con il palazzetto di casa pieno di tifosi come per una finale Nba.
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Poi è venuto il suo momento: il coach ha chiamato il cambio e lui si è trovato lì, in mezzo al parquet, con lo sguardo un po’ smarrito che batteva più o meno all’altezza delle ginocchia dei compagni. Passaggio ricevuto, palla in mano e via, verso canestro: un po’ palleggiando, un po’ commettendo qualche infrazione (ma chi l’ha vista?) sfruttando al meglio anche un blocco che gli ha spalancato il cuore dell’area.
E dal centro dell’area, come Superman, su fino al ferro per piazzare una schiacciata in faccia ai giganti della difesa. Il giocatore dei Jazz che l’ha preso in braccio e sollevato fino ai 3 metri e zero cinque del ferro non l’ha visto nessuno. Palla in mano, presa sicura e sbam! dentro il canestro a segnare i due punti.
Quando è sceso a terra JP non aveva più lo sguardo confuso, ma l’aria sicura e felice di chi, nel suo profondo, stava pensando: «Visto, che sberla che vi ho cacciato in gola?». Ha battuto un paio di cinque, a destra e sinistra, mentre tornava a centrocampo sentendosi alto tre metri e con il pubblico in piedi e i giocatori commossi. Perché sul parquet, in quel momento, anche i campioni erano tornati bambini: con i loro sogni, le loro speranze, la voglia di arrivare all’Nba con tutte le loro forze mentre provavano e riprovavano a tirare un vecchio pallone rovinato contro un tabellone di legno di qualche sperduto playground.
JP Gibson è tornato a casa più forte: per chi ha schiacciato in faccia alla difesa dei Jazz, cosa volete che sia piazzare un colpo vincente contro una bastardissima leucemia? Forza JP, guarisci e provaci davvero, ad arrivare all’Nba. Il primo passo l’hai fatto. di Mattia Losi
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