A Benedicto ad Franciscum

Anniversario della pubblicazione dell’Enciclica di Benedetto XVI ‘Spe Salvi’

11 anni fa, il 30 novembre 2007, fu pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI: la ‘Spe Salvi’. La speranza cristiana che salva

 

UN PONTIFICATO DA VIVERE ANCORA

La seconda enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi, è ispirata ad una frase di San Paolo: “Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). La speranza cristiana non ha una dimensione solamente terrena. Gesù Cristo, infatti, ci ha condotto all’“incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo” (SS 4). La speranza cristiana non è in qualcosa ma in Qualcuno. Inoltre essa è la fonte della vera libertà, in contrapposizione con i falsi miti del progresso e della scienza. Quest’ultima, in particolare “non redime l’uomo”, scrive il Papa emerito, anzi, se male utilizzata, “può anche distruggere l’uomo e il mondo” (SS 24-26). Tre sono i luoghi della speranza, indicati da Benedetto XVI: 1-. la preghiera, in quanto Dio non nega mai il suo ascolto; 2-. l’azione  che implica soprattutto il lato altruistico della speranza, l’impegno affinché “il mondo diventi un po’ più luminoso e umano” (SS 35); 3-. la sofferenza che “permette di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore” (SS 36-39); 4-. il giudizio di Dio, ovvero la giustizia divina finale che “revoca”

la sofferenza passata.

Nella Spe salvi Papa Benedetto XVI conforta il popolo cattolico alla speranza, ricevuta nel battesimo da ciascun nuovo nato con la grazia di essere chiamato figlio di Dio, e la certezza dell’immortalità dell’anima, e della vita eterna.

Ogni cristiano è amato da Dio Padre, anche nel peccato, e sarà perciò salvato e redento da Lui. L’inferno è la pena che spetta a chi ha rifiutato di camminare lungo la strada di Cristo durante la sua vita terrena. Ma il fuoco è Cristo stesso che brucia e consuma, purificando le anime dal lerciume di cui si sono macchiate allontanandosi dalla sorgente dell’Amore e della Verità. E finendo col tradire la vocazione più profonda e più propria dell’uomo che è la chiamata all’Amore e alla condivisione del Bene in Dio, nella comunità dei fratelli. La speranza, dunque, insieme alla fede e alla carità, costituendo una delle tre virtù teologali, è il fondamento del cristianesimo. L’uomo che ha fede non dispera, perché crede in Dio e nella giustizia vera, che non opera distinzioni di sorta tra i fratelli, figli anche dello stesso Padre. Soprattutto, la speranza, nella quale i cristiani sono fatti salvi, è saldamente ed inscindibilmente unita alla fede. La speranza è difatti la fede che si fa attesa di ciò che verrà. Ed è sentimento di amore che lega presente e futuro, nella certezza che ciò che si spera e si attende non tarderà a compiersi. Le promesse di Dio, infatti, sono già certezza del presente, e colmano l’esistenza umana di senso e di significato, conferendo all’uomo dignità e valore. In quanto tali esse risiedono nella domanda filosofica di Kant sul noumeno, che è ricerca metafisica sulle idee regolative di ragione, anima, mondo e Dio, ma che al tempo stesso si fa interrogativo radicale per la vita umana.

Anche l’uomo laico e l’ateo non possono vivere senza porsi il problema sul senso stesso della vita e dell’Essere.

La ricerca scientifica e tecnologica sono possesso e dominio sulla natura. “Scire est posse”, diceva Bacone. Ma questo dominio freddo sulla realtà diventa il principale strumento di offesa per l’uomo, che si fa oggetto, piuttosto che essere soggetto, della stessa ricerca scientifica. Umanizzare la scienza significa tornare ancora all’interrogativo kantiano sul cosa mi è lecito sperare. Poiché la vita dell’uomo non ha senso vero fino a quando è chiusa nei limiti asfittici dello sterile scientismo tecnologico. Ecco allora che si fa chiaro il bisogno di rintracciare una morale che salvi la dignità umana dalla miseria del materialismo, e che permetta all’uomo di scorgere oltre il cielo stellato un senso alla sua propria vita. Una poeticità che Galilei e Copernico non intravedevano ancora. Un’unità totale che fa dell’uomo un’appartenenza imprescindibile del cielo stellato. Che nella legge morale e nelle idee regolative di ragione trovava il suo fondamento ontologico, metafisico e perciò stesso radicale e definitivo. In ultima istanza si comprende bene come la ricerca metafisica condotta dall’agnostico Kant abbia appassionato anche il teologo Ratzinger, che è uomo di fede. Non bisogna essere cattolici per porsi domande nuomeniche di tipo metafisico.

Cosi come non è necessario credere per svelare la profondità dell’idea di Dio, radicata nell’interiorità della coscienza.

Basta semplicemente essere uomini per comprendere che guardare il cielo stellato col binocolo per scoprirne i moti, e guardare il cielo per apprezzarne il sublime dinamico di cui parla Kant nella Critica del Giudizio, sono cose completamente diverse. E che lo sguardo dell’astrofisico è pur sempre limitato rispetto allo sguardo dell’uomo-persona, che si pone l’ulteriore domanda radicale sul senso della bellezza e sulla finalità del creato. Il meccanicismo materialistico deve essere superato in una visione finalistica della natura che permetta di scorgere, oltre la causalità, il significato più vero del creato e dell’uomo. L’uomo figlio di Dio è, infine, persona, non individuo. Ed è, in quanto tale, l’unità inscindibile di anima e corpo. La visione olistica consente di superare il meschino interesse privato degli individualisti. La persona è il valore più grande del cattolicesimo. Ed è precisamente quel valore che l’Occidente ha ormai perso di vista e dimenticato. C’è una cecità profonda che offende la nostra civiltà. Ormai incapace di sconvolgersi e di scandalizzarsi per il disprezzo che si prova nel post moderno per la vita umana. Basta leggere una pagina di quotidiano per rendersi conto di come si sia scivolati in basso. L’anestesia al dolore di vivere è, ormai, tutt’uno con l’indifferenza per l’uomo che muore, ucciso ogni volta dai suoi propri simili. Cristo è stato ucciso dall’uomo, e viene ancora ucciso migliaia di volte ogni giorno dall’efferata violenza dell’uomo senza valori. Nietzsche ci racconta della morte di Dio e assimila alla bestia l’uomo che uccide il Suo Proprio Creatore. “Razza di vipere!”, Tuonava Cristo. Non è il Cristianesimo, che di per sé non esiste se non in quanto pura astrazione teoretica, ma è l’uomo carne e sangue che si è macchiato dell’infamia peggiore. Quella di aver ucciso il Suo Dio, e di essersi sostituito a Lui, con spaventosa e nefasta arroganza. Ed è probabilmente proprio in questa presunzione il dramma dell’Occidente. Il suo pericolo più grande.

a cura della Redazione Papaboys 

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