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Appello a Papa Francesco per il medico iraniano incarcerato: ‘Aiuta nostro papà a tornare a casa’

È stato lanciato dai due figli del ricercatore dell’Università di Novara. La moglie chiede aiuto ai governi italiano e svedese: “Salvate mio marito”. Appello al Papa per liberare il medico iraniano Ahmadreza Djalali, detenuto a Teheran.

L’hanno lanciato i due figli dalla Svezia, Amitis di 14 anni e Ariou, di 5: «Francesco, aiuta il mio papà a tornare a casa, non lasciarlo morire in prigione».
Da venerdì il ricercatore del Centro di medicina dei disastri di Novara detenuto in Iran ha cominciato lo sciopero della sete, da giorni aveva ripreso a rifiutare il cibo. Per lui sono state raccolte oltre 220 mila firme in tutto il mondo, Amnesty

ha avviato un’azione urgente e ieri è partito dal web anche l’invito a inviare un tweet a Papa Francesco. Djalali è stato arrestato ad aprile con l’accusa di aver collaborato con Paesi nemici e da allora è detenuto nella prigione di Evin, vicino a Teheran. Nei giorni scorsi è stato portato davanti al giudice che ha ricusato ancora una volta l’avvocato di fiducia scelto dal medico: a quel punto Djalali ha ripreso lo sciopero della fame, che aveva iniziato a fine dicembre e interrotto da poco confortato dalla mobilitazione mondiale a suo favore. Da venerdì ha cominciato a rifiutare anche l’acqua.

La figlia maggiore Amitis ha scritto una straziante lettera al padre che non vede da undici mesi: «Un minuto fa ho visto la tua foto sorridente e penso perché tutto questo stia accadendo a te. Ho paura di perderti a causa di questa ingiustizia». Il fratellino Ariou ha chiesto come regalo di compleanno per i suoi 5 anni il ritorno del padre: «Quando è triste si mette in un angolo, piange e ti chiama – continua la lettera di Amitis -. Quando suona il campanello o il telefono, grida il tuo nome. Ha perso il suo primo dente e ora conosce l’alfabeto: saresti molto fiero di lui se lo sapessi. Papà ti voglio bene e non smetterò mai di credere che tu tornerai a casa. Per favore, non mollare».




L’appello della moglie Vida

Djalali si occupava di Medicina dei disastri e per questo ha vissuto in Italia, a Novara, tre anni dal 2012 alla fine del 2015 quando la famiglia si è trasferita in Svezia, a Stoccolma. Collaborava ancora con l’Università del Piemonte Orientale quando ad aprile è stato arrestato: si trovava in Iran per un convegno su invito dell’Università di Teheran. I suoi colleghi e amici lo aspettavano a maggio a Novara per il consueto master organizzato dall’Upo proprio sulla medicina dei disastri ma lui non è arrivato: in un primo momento la moglie Vida, per timore di ritorsioni, aveva raccontato che il marito era rimasto vittima di un grave incidente e solo a ottobre ha raccontato quello che stava accadendo. A dicembre l’arresto di Djalali è diventato di dominio pubblico: il medico, che per la sua attività aveva contatti con studiosi di tutto il mondo, è stato accusato di aver «collaborato con paesi nemici». La moglie Vida ha lanciato l’appello ai governi italiano e svedese: «Salvate mio marito, rischia di morire».




Fonte:  www.lastampa.it

 

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