Si è celebrata ieri la Giornata internazionale contro la pena di morte: nel 2014 sono state registrate 3.576 esecuzioni capitali, 2.229 nei primi sei mesi del 2015.
Cina, Iran, Arabia Saudita e Pakistan gli Stati col più alto numero di condanne a morte. Tra le tante è drammatica la storia di Ali Mohammed Baqir al-Nimr, attivista sciita di nazionalità saudita condannato a decapitazione e crocifissione poiché accusato di vari crimini. Il Tribunale speciale di Gedda – secondo Amnesty International – si sarebbe basato su una “confessione” estorta con la tortura e maltrattamenti, su cui si è rifiutato di indagare. Il servizio di Francesca Di Folco:
Se fosse eseguita quella del giovane dissidente Ali al-Nimr sarebbe la 115.ma esecuzione sulle 130 condanne a morte ordinate nei primi otto mesi del 2015 in Arabia Saudita. Ali Mohammed al-Nimr, ora ventenne, è stato arrestato ad appena diciassette anni nel 2012, durante una manifestazione sciita a Qatif, nella provincia orientale saudita: è stato accusato di far parte di un’organizzazione terroristica, possesso armi, lancio di bottiglie molotov e di aver usato il suo cellulare per l’organizzazzione della protesta. Secondo i suoi familiari, il ragazzo paga per essere il nipote di un famoso imam sciita, a sua volta imprigionato e decapitato agli inizi della Primavera araba. Le accuse contro Ali al-Nimr, confermate in fase processuale, si basano sulla sua confessione che – denunciano molte Ong – fu estorta con torture e al ragazzo è stato negato un avvocato. Riccardo Noury , portavoce di Amnesty International Italia:
“Ci sono reali possibilità, a patto che la mobilitazione di opinione pubblica mondiale continui e, soprattutto, che i governi, che hanno maggiore influenza sull’Arabia Saudita facciano presente la loro posizione a questa esecuzione e all’uso della pena di morte in quel Paese che è arbitrario e indiscriminato”.
Tra il 1985 e il 2013 in Arabia Saudita sono state uccise dopo una condanna a morte oltre 2000 persone. Tra l’agosto 2014 e il giugno 2015 ci sono state 175 decapitazioni. Numeri che non hanno impedito però alle Nazioni Unite di nominare l’ambasciatore saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016. Ancora Riccardo Noury:
“Sì, è una nomina che è stata decisa ovviamente con una maggioranza di Paesi che non brillano per rispetto dei diritti umani. E anche se questa funzione deve essere svolta, come tutti gli incarichi individuali, a titolo personale, è difficile immaginare che possa essere espletata secondo criteri di trasparenza, imparzialità e dalla parte dei diritti umani. L’idea che un funzionario saudita sia a capo di coloro che devono nominare gli esperti sui diritti umani è come, in poche parole, se a capo dei vigili del fuoco fosse stato messo un piromane”.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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