Il bisogno di camminare insieme. Fossano, 40.000 abitanti. Cuneo, 120.000. Due città diverse non solo per dimensioni, ma per storia e per mentalità. Due diocesi distinte, ma unite da un unico vescovo, monsignor Giuseppe Cavallotto. “Cuneo ha 200 anni di storia – ci racconta -, Fossano ne ha quasi 500. Non le distingue solo la storia, ma soprattutto la mentalità. Cuneo è fortemente condizionata dal mondo proveniente dalle vallate, ricche in passato e che hanno arricchito la pianura e la città. I cuneesi sono più chiusi, mentre quello di Fossano è un mondo contadino, legato all’agricoltura e soprattutto agli allevamenti, dove lo scambio è molto intenso. Anche se a Cuneo, e nella provincia, le manifestazioni culturali sono molto vivaci, mentre a Fossano molto più limitate…”. Eppure, lo sforzo di questo angolo di Piemonte, negli ultimi nove anni, è stato quello di vincere una scommessa: “Come poter salvaguardare la storia, la cultura, la sensibilità di ognuna delle due diocesi e nello stesso tempo come camminare insieme”. Sì, perché nell’attesa di sapere come evolverà il dibattito tra i vescovi sull’accorpamento o meno delle diocesi più piccole, quello che è certo è che a Fossano e Cuneo c’è un piano pastorale comune, momenti di vita in comune tra il clero, come ritiri, giornate di aggiornamento, settimane residenziali. “Ma la mediazione si lascia alle sensibilità locali”, puntualizza mons. Cavallotto, che informa come le dimensioni delle parrocchie, sia a Fossano che a Cuneo, vanno dai 4 ai 10mila abitanti, fino a scendere a 2mila, 500, 50 persone. “Stiamo studiando ipotesi su come si possa servire queste piccole comunità garantendo loro almeno la celebrazione eucaristica domenicale, l’incontro con le famiglie, prevedendo unità pastorali con momenti formativi comuni”. Più che unificazione, la strada scelta finora è stata quella di “intensificare la collaborazione” tra le diocesi e le loro strutture di servizio, come gli uffici e le commissioni. “Tutti avvertiamo il bisogno di momenti comuni”, assicura il presule, “poi si vedrà”.
Imparare dal “popolo”. “I grandi numeri creano distanza, mentre noi abbiamo molte occasioni per visitare le parrocchie, per essere vicini alla gente nei bisogni quotidiani”. Monsignor Giovanni Tani, vescovo di Urbino-Urbania-Sant’Angelo in Vado, spiega così l’“endorsement” del Papa a favore delle diocesi di piccole dimensioni, “significativo” nel momento in cui la Cei sta ridefinendo il proprio Statuto. Per monsignor Pietro Lagnese, vescovo di Ischia, l’invito di Francesco è in sintonia con la sua esortazione ad “andare alle periferie, per riportare al centro la persona, ridarle dignità. Il vissuto delle persone può sfuggire alle grandi realtà ma non sfugge a quelle piccole, dove le relazioni possono essere valorizzate e vissute in maniera bella, sulla scia del grande esempio del Papa, che è il primo testimone di relazioni autentiche che ripartono dal Vangelo”. Ischia ha 48mila abitanti, Urbino 51mila. “Si può fare una pastorale personalizzata”, garantiscono i presuli. Al primo posto, tra le priorità per le loro chiese locali, ad Urbino c’è il lavoro e ad Ischia la famiglia. Per entrambi, un’altra questione “decisiva per il futuro” è quella dei giovani, che hanno bisogno di avere accanto a loro “un popolo che cammina” avendo come coordinate la “corresponsabilità” e la voglia di “convergere insieme”, pastori e laici, uomini e donne: “Lo facciamo già da tempo, ma bisogna perseverare e progredire”. “Ascoltate il gregge”, perché “ha il polso per individuare le strade giuste”, l’altra indicazione di Papa Francesco. Cosa avete imparato dal popolo? “Che ha bisogno di essere ascoltato e guardato”, risponde mons. Lagnese: “Di essere incontrato nei suoi problemi concreti e di ricevere l’annuncio di una bellezza che salva”. “Dal popolo ho imparato la fede, l’istinto della fede”, ci confida mons. Tani: “Il nostro popolo vede il modo in cui viene accolto, esprime la gioia di ritrovarsi insieme intorno a questa gioia e a questa bellezza”. Il popolo, insomma, come “ossigeno”, che “ci rianima”, concludono all’unisono i presuli. di M. Michela Nicolais per l’agenzia Sir
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