Mauro Leonardi

Attentato a Istanbul – A cosa serve pregare per la pace?

Nel giorno in cui la Chiesa celebra i 50 anni della Giornata Mondiale della Pace, Papa Francesco è ancora una volta costretto a guardare un’ orribile strage, forse compiuta dallo Stato Islamico. Questa volta tocca alla Turchia: almeno 39 persone uccise e oltre 60 ferite da uno o più attentatori travestiti da Babbo Natale mentre festeggiavano in discoteca il Capodanno. “Purtroppo, la violenza ha colpito anche in questa notte di auguri e di speranza. Addolorato, esprimo la mia vicinanza al popolo turco, prego per le numerose vittime e per i feriti e per tutta la Nazione in lutto, e chiedo al Signore di sostenere tutti gli uomini di buona volontà che si rimboccano coraggiosamente le maniche per affrontare la piaga del terrorismo e questa macchia di sangue che avvolge il mondo con un’ombra di paura e di smarrimento”.

Da cinquant’anni si prega per la pace, si lavora per la pace, e la pace si allontana sempre di più. E il giorno dell’anniversario rotondo – le nozze d’oro della Giornata della Pace, si potrebbe dire se fosse un matrimonio – si constata l’inutilità di quanto si sta facendo, di ciò che si celebra. Quale altra fondazione umanitaria potrebbe non vacillare di fronte a tale insuccesso? Chi non si darebbe per vinto e direbbe: torniamo tutti a casa propria, come fecero i discepoli di Emmaus il giorno di Pasqua prima di credere alla Resurrezione? Eppure di Papa in Papa, di Buon Anno in Buon Anno, di preghiera in preghiera, Papa Francesco come quelli prima di lui da Paolo VI in poi, non vengono meno ma anzi rafforzano l’impegno e il proposito di costruire un mondo pacifico e fraterno.

La giornata della Pace non è in primo luogo qualcosa da celebrare ma una giornata di preghiera. E la preghiera è il fondamento di ogni casa.

Nel senso che la preghiera è la pietra su cui si costruisce la pace ed è come quei pochi giusti della Bibbia che salvano dalla distruzione un’intera città, un intero popolo. Soffiano i venti, si abbattono le piogge, ma la casa non cade. Guerre, stermini, terrorismo, morte e morte e ancora morte, ma siamo qua ancora a pregare ad ogni inizio anno, ad ogni singolo giorno che segue, preghiamo e preghiamo, cioè affondiamo le nostre radici sulla roccia. Anni di occhi al cielo nei dipinti dei santi ci fanno percepire la preghiera come qualcosa che sale a Dio e allora guardiamo in alto e nella nostra casa, nella nostra vita, manca il tetto e anche i muri non sono finiti.

Anzi ci affatichiamo e qualcosa ci crolla sempre addosso. Ma la preghiera va a Dio e Dio è tra noi da 2000 anni e allora dobbiamo guardare giù per cercare Lui e con Lui, le nostre preghiere e le troveremo lì, anche se poche, anche se sempre più fioche, anche se sempre più arrabbiate, e sono le radici che ci reggono insieme e che sono fondate sulla roccia. Una roccia che nessuna bomba, che nessun mitra può scalfire. Il 25 dicembre abbiamo celebrato il Natale e quel giorno di duemila anni fa degli angeli dissero: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama” (Lc 2,14). Ma pochi giorni dopo, il 28 dicembre, abbiamo celebrato la strage degli innocenti. Erode stermina tutti i bambini dai due anni in giù a causa di quel Bambino i cui messi proclamavano la pace. Che significa allora fermarsi a pregare? Significa, forse, provare ad entrare nelle parole di Gesù quando dice che porta e dona la pace “ma non come la dà il mondo” (Gv 14, 27). La pace non è l’assenza di guerra, anche se ovviamente è assolutamente necessario trovare il modo di far sì che non si ripeta quanto accaduto di nuovo poche ore fa. Forse, allora, il vero oggetto della preghiera per la pace è comprendere cosa sia la pace che viene annunziata da Cristo. Facciamo il bene possibile giorno per giorno, ha ragione Papa Francesco. E arriveremo al tetto della nostra casa.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da IlSussidiario.net



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