Alle 17.50 del 19 aprile 2005, la fumata bianca dalla Cappella Sistina annunciava l’elezione di Benedetto XVI, 265.mo Pontefice della Chiesa. Il breve saluto col quale il nuovo Papa si presentò alla folla e al mondo diede subito la cifra dell’uomo e del pastore, un uomo umile che si apprestava al massimo ministero fidando nella “gioia di Cristo Risorto”. Ventitré anni, cioè una vita intera, a reggere il luogo dove si “ausculta” con discrezione e attenzione il cuore della Chiesa, la regolarità oppure l’alterazione dei suoi battiti – la Congregazione per la Dottrina della Fede – rimanendo in totale sintonia d’anima, e in amicizia, con Giovanni Paolo II. Poi, alle 18.50 di un martedì pomeriggio di aprile, mentre la Chiesa ha ancora in gola il groppo per la morte del Papa che si vuole “Santo subito”, tocca proprio all’“insigne maestro di teologia” – come lo definì Paolo VI facendolo cardinale – succedere all’amico ormai affacciato a una finestra più alta e grande. Ma anche quella della Loggia centrale di San Pietro, verso la quale il nuovo Papa avanza e da dove arriva il brusio frontale di 100 mila persone, è una finestra lata e soprattutto enorme come l’emozione che l’uomo mite, abituato a cattedre e carte più che a prosceni e microfoni, cerca di contenere dentro di sé: “Cari fratelli e care sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me…”.
Ovvio senso del limite, ma ancor più senso della perdita. Entrambi traspaiono all’unisono nelle parole d’esordio di Benedetto XVI. Ma se immaginarsi successore di un Pietro col carisma di Giovanni Paolo II è impresa che appare smisurata da ogni lato, forse più smisurato in quel momento di ferite aperte è certamente il dolore privato inferto al cuore da quel “dopo”. “Dopo il grande Papa” è anche il “dopo” i tanti anni vissuti non all’ombra ma nella luce di uno straordinario amico: “…hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti…”. Schietti i due aggettivi che valgono titoli istantanei e future biografie. E più che sufficienti per presentarsi a un uomo che la vigna del Signore ha sempre servito con dedizione, dissodando però zone e zolle fuori del raggio dei riflettori, terreni che quasi mai fanno notizia e che non richiedono di affinare doti di presenza mediatica. Il nuovo Pietro ne è consapevole, come pure del fatto che, là dove possono risultare “insufficienti” le doti, arriva Dio con i suoi doni a migliorare la natura con la grazia: “…e soprattutto mi affido alle vostre preghiere, nella gioia del Signore risorto, fiduciosi del Suo aiuto permanente. Andiamo avanti, il Signore ci aiuterà, e Maria, Sua Santissima Madre, sta dalla nostra parte. Grazie”.
Fiducia nel sostegno divino, in quello della Vergine, richiesta di preghiere: forse quanto di più “normale” da esprimere in una circostanza simile. Ma la chiave del Pontificato che inizia sta tra queste due sponde e sarebbe banale spiegarla solo come riferimento al tempo liturgico. Ed è un messaggio che possiede un’eco di antica comunità cristiana, di quando chi professava la fede, e rischiava la vita, si faceva forza con la forza di una certezza, quella che in tanti cristiani tiepidi di oggi – e oggi si direbbe “di pasticceria” – sembra un panno scolorito, un carburante esausto, un entusiasmo solo per bambini. La parola chiave di Benedetto XVI è gioia della Risurrezione, perché il suo Pontificato – è bene ricordarlo – inizia così: “Nella gioia del Signore Risorto”. di Alessandro de Carolis*
*L’articolo è tratto da: radiovaticana.it
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