Una ventina di persone sono rimaste uccise oggi a causa dell’esplosione di un’autobomba a Homs, in Siria, nei pressi di una scuola dove si stava svolgendo una sessione d’esame. L’attentato è avvenuto in un quartiere alawita, comunità spesso nel mirino di al Nusra e dell’Is. Ieri, invece, ad Aleppo, un elicottero con a bordo tre ufficiali siriani è stato abbattuto dal sedicente Stato islamico. Ma come va avanti la popolazione che abita le terre invase dall’Is? “Vivere sotto Daesh”. Questo il titolo dell’iniziativa, organizzata dall’associazione “Un Ponte per…”, che si è svolta nei giorni scorsi a Roma, con una serie di incontri, nei quali due attivisti per i diritti umani hanno testimoniato la realtà dei territori soposti all’occupazione del sedicente Stato islamico e le iniziative di resistenza della società civile irachena e siriana.
Vivere sotto l’occupazione del sedicente Stato islamico in Siria e in Iraq e raccontare le violazioni sistematiche dei diritti umani e la resistenza di quella porzione di società civile che, con coraggio e correndo enormi rischi, cerca di aiutare la popolazione sotto assedio. A un anno dalla presa di Mosul, seconda città irachena, Suha Oda, dell’”Iraqi Women Journalist Forum”, racconta cosa voglia dire oggi essere una donna e una giornalista in Iraq:
“Essere una donna e fare la giornalista in Iraq e in particolar modo nelle zone sotto il controllo dell’Is oggi è chiaramente una sfida, una sfida contro la morte. Ci sono almeno 16 cadaveri di giornalisti che si trovano negli obitori gestiti dall’Is, di cui abbiamo notizia. Ci sono molte mie colleghe che sono state uccise per il loro lavoro giornalistico. C’è però anche da dire che già prima che arrivasse lo Stato Islamico era comunque una sfida essere donne giornaliste in Iraq e soprattutto nella nostra zona, che è una zona piuttosto conservatrice. Certo, non era una sfida contro la morte com’è invece oggi, ma era certamente qualcosa già di difficile. Quindi, per noi rappresenta una sfida e, in qualche maniera, anche una missione”.
Dopo l’espulsione dei cristiani da Mosul e dalla Piana di Ninive, l’unica minoranza ancora presente in città è costituita dalle donne yazide, moltissime delle quali rapite e ridotte in schiavitù. In pochissime si salvano, racconta Suha, grazie all’iniziativa di altre donne irachene che riescono a farle fuggire. Suha denuncia anche la tragica situazione umanitaria in cui versa Mosul dall’occupazione: tutti i servizi, compresi quelli sanitari, sono del tutto assenti. Non ci sono vie d’accesso per i rifornimenti medici e i pochi ospedali in funzione sono sotto il controllo dei guerriglieri dell’autoproclamato califfato. Mancano anestetici e disinfettanti, le donne sono costrette a partorire senza anestesia e nel solo mese di agosto del 2014 i neonati morti per setticemia raggiungevano la macabra media di 15 a settimana.
Mosul in Iraq, come Raqqa, in Siria. Una delle prive province liberatesi dal regime di Damasco e poi finita sotto l’occupazione dei miliziani dell’Is. Jimmy Botto Shainian, attivista siriano rifugiato in Turchia:
“La situazione dei civili all’interno di Raqqa è una situazione di forte pressione, sotto ogni punto di vista. E’ difficoltoso persino riuscire ad accedere al cibo… Questa organizzazione Daesh, l’organizzazione dello Stato Islamico, ha imposto regolamenti stringenti praticamente su ogni aspetto della vita, incluso – ad esempio – il taglio della barba o i codici di abbigliamento. Per quanto riguarda poi la situazione umanitaria, basti pensare alla situazione dell’istruzione: su 235 scuole presenti a Raqqa ne sono aperte solo 17 e in queste 17 i programmi sono stati cambiati. Tutte le materie umanistiche sono state eliminate per lasciar spazio all’educazione religiosa, lasciando praticamente soltanto la matematica. E questo vale per tutti i livelli di studio e non solo per i bambini piccoli… Per quanto riguarda gli ospedali, a Raqqa ce ne erano quattro ed ora uno solo è funzionante in modo quasi completo, ma è riservato principalmente ai guerriglieri stessi.
Ormai, siamo entrati nel quinto anno della guerra civile e della conseguente situazione siriana e dopo questi anni ci siamo ormai convinti che i problemi in Siria nascono essenzialmente qui in Europa: i problemi nascono dai quei 35 mila combattenti che vengono dall’Europa per combattere nelle file dello Stato islamico da noi in Siria e non dai 3-4 mila che sono i siriani all’interno di questa organizzazione. Noi siamo fiduciosi del fatto di poter riuscire a superare gli scontri interni tra i siriani, ma è importante che l’Europa giochi il suo ruolo nel contenere questo problema e nel cercare di porre un argine a questa vicenda. Le politiche che sono state messe in atto da parte dei governi europei e del governo italiano sono state politiche fino ad oggi fallimentari. Mentre, invece, alcune fra le cause profonde di una guerra, che è sempre più una guerra che ha luogo in Siria ma che non è una guerra siriana, hanno soluzioni che cominciano proprio qui in Europa”.
Nel corso del loro viaggio in Italia, organizzato dall’associazione “Un ponte per”, i due attivisti hanno effettuato due audizioni ufficiali presso le Commissioni congiunte Esteri e Diritti umani del Senato e il Comitato diritti umani della Camera.
Il servizio è di Elvira Ragosta per la Radio Vaticana
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