La prima volta che Wasfi ha suonato il violoncello in questo modo è stato alla fine di aprile, il giorno dopo che un’esplosione aveva colpito il quartiere di Mansour, non lontano dalla sua casa, uccidendo dieci persone. Quel giorno Wasfi è sceso in strada e di fronte all’edificio appena sventrato, con vetri rotti e detriti ancora ai suoi piedi, ha eseguito la sua “Baghdad Mourning” (dall’inglese lutto per Baghdad, ndr).
La preoccupazione di Wasfi per l’Iraq è grande: «Nel Paese dove sono cresciuto – spiega il musicista –, osservo con ansia la caduta dei valori morali, il crollo del senso di responsabilità verso l’umanità e la civiltà unito all’uso dell’intimidazione, della paura e della violenza, non so quando si tornerà alla normalità». Sono seguite altre dieci improvvisazioni musicali successive allo scoppio di autobomba in quartieri diversi di Baghdad, anche se in realtà il numero di attentati nella provincia Baghdad è stato molto più alto con 662 civili uccisi tra aprile e maggio, stando ai dati delle Nazioni Unite: «La mia è un’azione, non una reazione, perché credo nella civiltà, nella pace, nella bellezza – racconta ancora il direttore dell’Orchestra nazionale sinfonica dell’Iraq –. Voglio controbilanciare gli effetti delle bombe, della distruzione, della morte, delle proteste. La devastazione sta prendendo il sopravvento su tutto il resto. Con il mio violoncello vorrei fare l’opposto: portare musica, bellezza, pace, compassione, comprensione, integrazione».
Suonare per unire, in quello che Wasfi chiama «un’ideale di fratellanza»: «Tra chi mi ascolta in strada ci sono ortodossi, musulmani, caldei, agnostici, atei» e la musica dà consolazione a tutti.
Mentre lo si ascolta suonare il violoncello, chi dal vivo a Baghdad e chi su You Tube nel resto del mondo, riaffiorano, tra i ricordi, le immagini del violoncellista di Sarajevo, Vedran Smailovic che nel 1992 nella capitale bosniaca suonò per 22 giorni – in luoghi diversi, anche tra i ruderi della Biblioteca nazionale di Sarajevo – per onorare la memoria di 22 civili uccisi mentre facevano la fila per il pane. «Noi ufficialmente non viviamo sotto assedio, ma ogni giorno è possibile che ovunque scoppi un’autobomba: è come vivessimo in una foresta e vedessimo soltanto gli alberi che ci circondano, e non quello che c’è oltre. Allo stesso modo viviamo tra le esplosioni e la paura, senza riuscire più a vedere quello che c’è oltre».
La pace e la stabilità, oltre alla musica e alla bellezza: «Il nostro passato ci ha insegnato cosa vuol dire morire per delle cause, oggi invece abbiamo la possibilità di scegliere di vivere pacificamente e democraticamente, facendo progredire i nostri Paesi – continua il direttore d’orchestra, riferendosi all’Iraq ma anche al resto del Medio Oriente – verso cui ognuno di noi ha una responsabilità morale». Sul tema delle migrazioni e dell’accoglienza che l’Europa deve garantire, Wasfi è convinto che si debba lavorare individuando soluzioni concrete che guardino alla dignità e al rispetto delle persone, supportando progetti nel campo dell’arte e della musica nei Paesi di origine dei migranti, «per far sì che le persone, se lo vogliono, possano costruire lì il loro futuro ». Laddove questa «forma di resistenza», come la chiama Wasfi, si scontra con situazioni di pericolo per la vita, allora devono entrare in gioco gli Stati europei «formando dei comitati di eritrei, di libici, di siriani, di chi fugge dalla guerra, che già vive in Europa, disposto a fare da intermediario con i connazionali nel processo di integrazione».
A cura di Redazione Papaboys fonte: Avvenire
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