Il bambino ha lineamenti asiatici e capelli lunghi e neri. In mano tiene una calibro 9, ma dimostra dieci anni, e chi lo guarda in un primo istante pensa che quella sia un’arma giocattolo: un bambino che gioca alla guerra, con una pistola che sembra vera. Ma poi il ragazzino punta l’arma e spara, e uccide due prigionieri in ginocchio.
Il video spedito dal Califfato al mondo da al-Hayat Media, braccio mediatico dell’Is, finisce con il bambino che promette che crescerà, e ucciderà ancora. Allora anche le bambine kamikaze che Boko Haram in Nigeria ha usato in questi giorni per fare stragi nelle piazze e nei mercati, non sembrano più episodi isolati, ma anelli di una catena in un disegno di orrore.
Perché c’è qualcosa di peggio che massacrare uomini inermi, e questo qualcosa prende forma se a dare la morte sono dei bambini. Bambine usate come serbatoi di esplosivo, con chissà quali parole strappate alle famiglie e poi convinte o minacciate e costrette e spinte al patibolo loro, e altrui. Bambini arruolati in un macabro inganno, nell’età in cui alla guerra si gioca; e, magari, dapprima inorgogliti e fieri di essere presi sul serio dai grandi, dai soldati veri – ignorando il buio di disperazione in cui vengono attratti e sospinti.
Bambini utilizzati in fondo come cose, come carne docile, che ubbidisce e esegue e non sa, in quale laccio è stata presa. Se la strategia del jihad, declinata secondo le diverse latitudini ma in un’unica oscura nota, è di sconvolgere, sgomentare l’Occidente, ribaltandone la stessa visione del mondo, allora le bambine nigeriane, il ragazzino del video di al-Hayat sono i simboli di questa perversione: in cui non basta dare la morte, ma occorre che la diano i bambini, a testimoniarci che nulla davvero di intoccabile resta, in comune, fra i terroristi e noi.
Certo, non è la prima volta che i ragazzini vengono arruolati e combattono, è successo nei secoli passati così come nelle ultime ore del nazismo, è stato fenomeno di massa nella guerra civile ugandese come in altre guerre africane e tribali; ma ciò che è nuovo oggi è l’uso propagandistico, da parte del terrorismo islamico, dei bambini, quasi in un vanto, quasi fosse un primato di onore l’arruolare anche loro, quelli che non capiscono e non sanno, e farne portatori di morte.
Quasi che l’obiettivo di questa crociata di innocenti fosse, più che la lotta contro il nemico, la negazione stessa dell’uomo.
Un annichilimento di cui poi restano, come è accaduto nella guerra civile ugandese, le facce di quelli che furono costretti a sparare e a uccidere; e negli occhi di quegli ex bambini il lascito appunto di un annientamento, di una tenebra che sarà poi terribilmente difficile dissipare. Il passo in più, la soglia traversata da questa nuova guerra del terzo millennio è, oltre all’arruolamento dei fanciulli, il vantarsene, il farne oggetto di propaganda. Come a rivendicare un primato di disumanità; mentre, nella macchina inarrestabile e convulsa che è il web, ci saranno magari coetanei del bambino giustiziere dell’Is che vedranno quella esecuzione, quella promessa di crescere e uccidere, e forse desidereranno di fare altrettanto. La strategia del marketing adattata all’annientamento dell’uomo. Perché che questo nemico voglia in verità, e oltre alle sue affermazioni, solo il nulla e la morte, è il sospetto che è ragionevole coltivare, guardando alle stragi di innocenti, ai massacri di cristiani che compie con spaventevole efficienza in quelle parti del mondo, in cui può allargarsi e dominare indisturbato. E se di questo occorresse ancora una prova, guardate quelle bambine portate al massacro come agnelli, quel ragazzino del video, fiero di essere già ‘grande’.
È la sovversione delle radici della umana convivenza, il non fermarsi davanti alla faccia di un bambino e anzi servirsi proprio della sua debolezza, per farne un mezzo di morte. Negando, oltre alla sua fanciullezza, proprio ciò che è, nella natura degli uomini, un bambino: cucciolo da proteggere, e figlio che continua la nostra storia. Ma forse il senso profondo dell’annientare i bambini è proprio questo: una radicale avversione alla vita che continua, un odio profondo a quella che verrà.
Servizio di Marina Corradi
Fonte. Avvenire