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Bambino, armato e disarmato in una foto senza felicità

Non è possibile raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile senza intensificare gli sforzi a favore della scolarizzazione e quelli contro il lavoro minorile. A dirlo non sono le parole di Paola Turci che nella canzone “Bambini” del 1989 cantava “Bambino, armato e disarmato in una foto senza felicità, sfogliato e impaginato in questa vita sola che non ti guarirà”, ma i dati diffusi nelle scorse settimane da tre importanti agenzie delle Nazioni Unite.

Il primo allarme è arrivato dall’Unicef lo scorso 6 settembre, con l’annuncio “che oggi l’11,5% dei bambini in età scolare”, parliamo di 123 milioni presone, “non frequenta la scuola”. Nel 2007 erano il 12,8%, cioè 135 milioni di ragazzi e ragazze, il che significa che negli ultimi 10 anni la percentuale di bambini e giovani tra i 6 e i 15 anni che non vanno a scuola è diminuita di pochissimo e rimane concentra per il 40% nei paesi meno sviluppati e per il 20% nelle zone di conflitto.
Se a livello globale il 75% dei bambini in età da scuola primaria e secondaria che non frequentano la scuola si trova in Africa sub sahariana e in Asia del Sud, dove i livelli di povertà sono altissimi e rapidi gli incrementi della popolazione, i fattori che ancora oggi invertono ogni possibile progresso nella diffusione della scolarizzazione sono senza dubbio le guerre. Per l’Unicef “I conflitti in Iraq e Siria hanno prodotto altri 3,4 milioni di bambini che non seguono la scuola, portando il numero di scolari e studenti fuori dalle scuole, in Medio Oriente e in Nord Africa, ai livelli del 2007, con circa 16 milioni di individui non scolarizzati”. Oggi, non solo in questi paesi martoriati dalla guerra, gli investimenti mirati a far crescere il numero di scuole e insegnanti non sono sufficienti. “L’approccio tradizionale al fenomeno non riporterà quei bambini a scuola e non li aiuterà a sviluppare le loro potenzialità, soprattutto se continueranno ad essere intrappolati nella povertà, nelle privazioni e nell’insicurezza” ha detto dice Jo Bourne, responsabile Unicef per l’Istruzione.
Alla base di questa condizione, che condanna milioni di ragazzini alla marginalità economica e sociale, c’è evidentemente un cattivo uso delle già scarse risorse di cui dispone la comunità internazionale. La mancanza di fondi per l’istruzione, in molti casi non considerata un’emergenza, come la fame, la salute o la sicurezza, sta colpendo duramente l’accesso alle scuole. In media meno del 2,7% degli appelli umanitari a livello globale sono dedicati all’istruzione e nei primi 6 mesi del 2017, l’Unicef ha ricevuto soltanto il 12% dei fondi richiesti per garantire istruzione ai bambini che vivono in situazioni di crisi. Nonostante le difficoltà generali esistono anche esempi virtuosi come l’Etiopia e la Nigeria, che pur essendo tra i paesi più poveri del mondo, negli ultimi 10 anni hanno fatto i più grandi progressi nel tasso di iscrizione a scuola dei bambini in età da scuola primaria con un aumento, rispettivamente, di oltre il 15% e di circa il 19%.




Si tratta di una speranza, che deve però fare i conti con un altro dramma dell’infanzia e cioè quello sfruttamento minorile che oggi coinvolge oltre 152 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni che sono costretti a lavorare contro la loro volontà, principalmente nei settori dell’agricoltura (70,9%), dei servizi (17,1%) e dell’industria (11,9%). Circa un terzo dei bambini tra i 5 e i 14 anni impiegati in lavoro minorile sono oramai definitivamente fuori dal sistema educativo, il 38% dei bambini tra i 5 e i 14 anni è coinvolto in attività pericolose e quasi i due terzi di essi, di età compresa tra i 15 e i 17 anni, lavorano più di 43 ore alla settimana. Un fenomeno che riguarda 72,1 milioni di minori in Africa, 62 milioni in Asia e Pacifico, 10,7 milioni nelle Americhe, 5,5 milioni tra Europa e Asia Centrale, e 1,2 milioni nei paesi arabi. Praticamente un bambino su dieci nel mondo. A denunciarlo sono stati due studi correlati sulle moderne forme di schiavitù e lavoro infantile presentati il 21 settembre all’Assemblea Generale dell’Onu a New York dall’Oil (Organizzazione Internazionale del lavoro delle Nazioni Unite) e dall’Oim (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) assieme alla Walk Free Foundation e all’Alleanza 8.7, il partenariato globale che si prefigge di porre fine al lavoro forzato, alla schiavitù moderna, al traffico di esseri umani e per l’appunto al lavoro minorile.
“Il messaggio che stiamo diffondendo è molto chiaro – ha ricordato Guy Ryder, direttore generale dell’Oil – il mondo non sarà in grado di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 senza l’intensificazione degli sforzi per combattere questi drammi”. Perché se in passato per schiavitù si intendeva la proprietà “legale” di una persona nei confronti di un’altra, oggi la definizione moderna del termine si è drammaticamente estesa fino a comprendere pratiche come il traffico di esseri umani, la schiavitù per debiti, i matrimoni imposti e lo sfruttamento della prostituzione. A pagare il costo più alto di queste nuove schiavitù sono soprattutto donne e ragazze che costituiscono “il 71% delle vittime del traffico di esseri umani, quasi 29 milioni di persone, il 99% delle vittime nel settore del commercio sessuale e l’84% di quelle sottoposte ai matrimoni forzati”. Per Andrew Forrest, presidente e fondatore della Fondazione Walk Free, “Questi dati mostrano in maniera nitida il livello di discriminazione e disuguaglianze nel nostro mondo, come pure la tolleranza sconvolgente che permette che questo sfruttamento continui. Dobbiamo dire basta a queste ingiustizie” e non possiamo più rimandare il problema.




Fonte www.unimondo.org

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