Questo sabato 14 settembre 2019 nel duomo di Forlì viene proclamata beata la studentessa di medicina colpita da una malattia degenerativa che la rese cieca e sorda. La sorella Emanuela ci racconta come affrontò l’infermità con coraggio affidandosi progressivamente nelle mani di Dio
Quando ha sussurrato la sua ultima parola, «grazie», Benedetta Bianchi Porro stringeva la mano della sorella minore Emanuela. Aveva 27 anni quando si è spenta nella casa di famiglia a Sirmione, il 23 gennaio 1964. Sabato 14 settembre, dopo oltre 55 anni, la Chiesa la proclamerà beata nella cattedrale di Forlì.
Nella provincia romagnola, a Dovadola, era nata l’8 agosto 1936, e in quel territorio è fiorita subito dopo la sua morte un’attenzione speciale nei confronti di questa ragazza «che amava la vita, la natura, i libri e i film, ma anche indossare orecchini: teneva molto al suo aspetto». Così la ricorda la sorella Emanuela, classe 1941, più piccola di 5 anni, alle spalle una lunga carriera di ballerina alla Scala di Milano. «Avevamo un rapporto molto diretto: era precisa, obbediente, mi consigliava, le chiedevo i vestiti in prestito. Si è ammalata presto: la poliomielite, quando aveva appena 3 mesi, le aveva lasciato la gamba più corta. Poi sono iniziati i problemi di sordità e cecità; a 21 anni, mentre frequentava la facoltà di Medicina a Milano, si fece da sola la diagnosi: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen. Paralizzata, non sentiva né odori né sapori e aveva perso anche il tatto; le erano rimasti soltanto un filo di voce e l’uso di due dita rimaste sensibili, con le quali comunicava. Era come una sepolta viva».
Eppure dal suo letto irradiava serenità, tanto che i suoi amici dell’università facevano avanti e indietro in treno dal capoluogo lombardo a Sirmione per salutarla, pregare e comunicare con lei. «Nel fine settimana li andavo a prendere alla stazione di Desenzano per accompagnarli a casa nostra. Imparavano l’alfabeto delle dita, disegnando piano piano le lettere sul suo volto e sul suo corpo; lei rispondeva con poche frasi profonde. Finché ha potuto, ha scritto lettere, anche con una grafia malferma che sembrava tornata all’infanzia; poi le dettava». Con affermazioni lapidarie, che in poche parole riassumevano tutta l’intensità di un cammino spirituale profondissimo: «Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo».
Ma la fede di Benedetta non è sempre stata granitica, è cresciuta esponenzialmente durante la malattia. Un percorso graduale e anche drammatico, osserva la sorella: «All’inizio si ribellava. A 21 anni era disperata e diceva: “Non posso pensare di rimanere sorda, devo trovare un rimedio. Certo che devo sentire sempre la voce dell’anima mia”. E nel pieno della consapevolezza della diagnosi, confidò a un’amica: “Piuttosto mi ammazzo”».
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Poi la disperazione scomparve. Più si ammalva e più si addolciva. «Non sappiamo il momento in cui è cambiata: lo abbiamo visto e sentito da quello che diceva. Mai ha espresso rancore o l’amarezza di chi sente di subire un’ingiustizia. Scriveva alla mamma in una lettera: “Prima mi agitavo come un vestito stretto, ma ora con me c’è Dio, come sto bene, ah come sto bene”. E insisteva: “Dio è dappertutto anche se non lo vediamo, addirittura il regno di Dio è in noi”. Sapevamo di stare vicino a una santa, che incantava non solo noi familiari, perché la sofferenza non le aveva spento l’amore per la vita. E testimoniava Dio, se ne accorgevano anche i non credenti. Era una contemplativa: riconosceva la presenza del Signore nella natura, negli animali, nelle persone, in tutto».
Profondamente determinata, ha dato tutti gli esami dell’Università tranne l’ultimo, stremata dalla malattia eppure sempre in contatto con gli altri, pur se confinata immobile nel suo letto: «Bisogna tenersi per mano e formare una grande catena per andare da Dio. La preghiera impedisce di smarrirsi», ripeteva. Fra le perle, una sintesi evangelica: «La carità è abitare negli altri».
Benedetta aveva chiesto la guarigione: voleva vivere «e aveva sognato di avere un ragazzo, di costruire una famiglia. Ma per la sua gamba più corta a motivo della polio, e per la sordità, veniva anche derisa e non considerata dai ragazzi».
Due volte pellegrina a Lourdes, aveva promesso che se fosse guarita si sarebbe consacrata a Dio. Riceve un’altra grazia e comprende la sua chiamata: vivere serenamente la malattia. «Ho capito la ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo», aveva sintetizzato. «Ormai sembrava Gesù in croce, inchiodata al letto con la testa reclinata da una parte», ricorda Emanuela.
E la cecità diventa luce: «Nel mio buio terribile, nel mio silenzio pauroso, attendo la Sua luce», scriveva. «Sono piena di una gioia che non è terrena. Soffro molto, credo ogni volta di non farcela più, ma il Signore che fa grandi cose mi sostiene pietoso, e io mi trovo sempre ritta ai piedi della croce. Sfinita, fiacca ma sempre ancora lucida nella pace di Dio».
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«Ero sposata da qualche mese e fu anche profetica con me», testimonia Emanuela. «Volevo subito un figlio e mi preoccupavo perché non restavo incinta. Lei, che sempre ci consolava e incoraggiava, si mise a ridere e mi disse: “Guarda che devi aspettare. Il Signore ci dà quello che gli chiediamo quando siamo pronti a riceverlo”. Passarono ben 10 anni, prima di avere una bambina e subito dopo un maschio. Adesso non è più solo mia sorella: la Chiesa ne parla. Alla beatificazione saranno presenti 25 vescovi, un centinaio di sacerdoti, gruppi in arrivo da tutta Italia. E riceviamo lettere da tutto il mondo: una gioia immensa».
Di Laura Baldaracchi per FamigliaCristiana.it
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