Rileggiamo con interesse la piccola intervista di Peter Seewald, a Joseph Ratzinger- Benedetto XVI-, tratta dal libro “Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo”, sulla chiamata al sacerdozio del Santo Padre emerito. Com’e arrivato alla sua vocazione? Quando si è reso conto di ciò a cui era destinato? Una volta Lei ha detto: “Ero convinto – io stesso non so come – che Dio voleva qualcosa da me, che poteva essere raggiunto solo diventando sacerdote”. Si, ma non c’è stato nessun momento di improvvisa illuminazione, in cui potei riconoscere che sarei diventato prete. Al contrario, questa idea è maturata lentamente in me e ha dovuto essere continuamente rimeditata e fatta propria. Non potrei nemmeno assegnare una data precisa a questa decisione. Ma mi sono presto reso conto che Dio ha un progetto per ciascun uomo, anche per me, che esiste un piano di Dio per me e così, a poco a poco, mi è apparso chiaro che quel che Egli aveva in mente aveva a che fare con il sacerdozio.
In un tempo successivo ha avuto dei momenti paragonabili a un’illuminazione o un’esperienza di illuminazione in senso proprio? Per la verità, non ho mai avuto un’illuminazione nel senso classico del termine, come un’esperienza quasi mistica. Sono un cristiano del tutto normale. Ma in un senso più ampio, la fede dona al cristiano una luce. Insieme con il pensiero, il cristiano ritiene – per dirla con Heidegger – di riuscire a scorgere un po’ di luce oltre i sentieri interrotti.
Dopo che Lei si fu deciso per il sacerdozio, Le è capitato di doversi confrontare con dei dubbi personali, crisi o tentazioni? Ci sono certamente stati momenti del genere. In particolare, proprio nei sei anni di studio della teologia ci si imbatteva in tanti problemi dell’uomo e in tante domande. Il celibato è davvero ciò che fa per me? Essere parroco è ciò che fa per me? Già venire a capo di queste domande non era sempre una cosa semplice. Ho sempre avuto presente la via da seguire, ma non sono mancati dei momenti di crisi.
In che cosa consistettero queste crisi? Potrebbe ricordare un esempio? Negli anni in cui studiavo teologia a Monaco dovetti confrontarmi soprattutto con due questioni. Ero affascinato dalla teologia scientifica. Trovavo meraviglioso poter penetrare nel grande mondo della storia della fede; mi si aprivano grandi orizzonti di pensiero e di fede e, nel contempo, imparavo a riflettere sulle domande originarie dell’esperienza umana, che erano poi le stesse domande che riguardavano la mia vita. Ma mi resi sempre più conto che la chiamata al sacerdozio era molto di più del piacere di fare teologia, anzi, che il lavoro in una parrocchia spesso può distogliere da essa ed esigere tutt’altro tipo di impegni. Non potevo certo studiare teologia per diventare professore universitario, anche se questo era il mio tacito desiderio. Ma il si al sacerdozio significava per me dire si a quel compito nel suo insieme, anche nelle sue forme più semplici. Dal momento che ero piuttosto timido e poco pratico, che non ero né sportivo né dotato di capacità organizzative o amministrative, dovetti chiedermi se sarei stato capace di entrare in rapporto con le persone – se, per esempio, come coadiutore sarei riuscito a guidare e animare la gioventù cattolica, se sarei stato capace di insegnare religione ai più piccoli, se sarei stato capace di assistere gli anziani e i malati, e così via. Dovetti chiedermi se ero disposto a tutto questo per tutta la vita e se quella era davvero la mia vocazione. A ciò si aggiungeva, naturalmente, la domanda se sarei stato capace di vivere il celibato per tutta la vita. A quel tempo gli edifici universitari erano distrutti e non c’era spazio per la facoltà di teologia. Per questo risiedemmo per due anni nel castello di Furstenried e negli edifici da esso dipendenti, alla periferia della città. Lì si viveva a stretto contatto, professori e studenti, ma anche studenti e studentesse, così che la questione della rinuncia e del suo senso si poneva in termini assai pratici proprio in forma di questa convivenza quotidiana. Mi sono spesso confrontato con queste domande nel bel parco di Furstenried e, ovviamente, nella cappella, finchè nell’autunno del 1950 potei pronunciare un si convinto in occasione della mia ordinazione diaconale.
L’allodola di Frisinga. Il Papa racconta il giorno della sua ordinazione. Mi sentì felice, quando finalmente fui libero di questa bella, ma pur pesante fatica (la stesura della tesi di dottorato, nota di R.), e almeno per gli ultimi due mesi potei dedicarmi interamente a prepararmi al grande passo: l’ordinazione sacerdotale, che ricevemmo nel duomo di Frisinga per mano del cardinale Faulhaber, nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951. Eravamo più di quaranta candidati; quando venimmo chiamati, rispondemmo Adsum, «sono qui». Era una splendida giornata di state, che resta indimenticabile, come il momento più importante della mia vita. Non si deve essere superstiziosi, ma nel momento in cui l’anziano arcivescovo impose le sue mani su di me, un uccellino – forse un’allodola – si levò dall’altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso; per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta. a cura di Giovanni Profeta
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