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Bergoglio: vi spiego la teologia del popolo

Un discorso del 2012 dell’allora arcivescovo di Buenos Aires sulla «fede del nostro popolo umile» «Sotto il profilo storico, il nostro continente latinoamericano è marcato da due realtà: la povertà e il cristianesimo» L’impronta profonda della «spiritualità popolare»

«Bergoglio si ispira alla teologia del popolo». Questo ritornello è stato ripetuto fin dal minuto dopo l’elezione di papa Francesco. Ma pochi hanno cognizione precisa dei contenuti della teologia del pueblo, una delle correnti della teologia della liberazione di matrice sudamericana. Ora per la prima volta arriva in Italia un’opera sistematica di Introduzione alla teologia del popolo (Editrice Missionaria Italiana, pp. 272, euro 20, in libreria da oggi; info: tel. 051/326027), testo del teologo argentino Ciro Enrique Bianchi, che ha studiato sotto la guida di Víctor Manuel Fernández, attuale rettore dell’Università Cattolica d’Argentina e da tempo stretto collaboratore di papa Francesco. Il testo di Bianchi si presenta (così recita il sottotitolo) come Profilo teologico e spirituale di Rafael Tello, pensatore argentino che è da considerarsi uno dei fondatori della teologia del popolo. E che Bergoglio stima moltissimo: infatti, oltre a scrivere la prefazione al testo di Enrique Bianchi, volle anche intervenire con un discorso alla prima presentazione ufficiale di tale volume. Quel testo, inedito fino ad oggi, funge da prefazione all’edizione italiana di Introduzione alla teologia del popolo. 

Qui ne presentiamo ampi stralci.

Sotto il profilo storico, il nostro continente latinoamericano è marcato da due realtà: la povertà e il cristianesimo. Un continente con molti poveri e con molti cristiani. Ciò fa sì che nelle nostre terre la fede in Gesù Cristo assuma un colore speciale. Le processioni affollatissime, la fervida venerazione di immagini religiose, il profondo amore per la Vergine Maria e tante altre manifestazioni di pietà popolare sono una testimonianza eloquente. Puebla esprime questa stessa consapevolezza dicendo che l’incarnazione del Vangelo in America ha prodotto una «originalità storico-culturale» (cfr . DP 446). In cinque secoli di storia, nel nostro continente è andato sviluppandosi un nuovo modo culturale di vivere il cristianesimo, il cristianesimo ha trovato un nuovo volto. 

Quando ci avviciniamo al nostro popolo con lo sguardo del buon pastore, quando non veniamo a giudicare ma ad amare, troviamo che questo modo culturale di esprimere la fede cristiana resta tuttora vivo tra noi, specialmente nei nostri poveri. E questo, fuori da qualsiasi idealismo sui poveri, fuori da ogni pauperismo teologale. È un fatto. È una grande ricchezza che Dio ci ha dato. Aparecida ha fatto un passo avanti nel riconoscerla. Se prima si parlava di 

religiosità popolare (il termine resta in uso), Paolo VI fa un passo avanti e dice: sarebbe meglio chiamarla pietà popolare. Aparecida fa un altro passo avanti e la chiama spiritualità popolare.

In una prospettiva storica, se guardiamo a questi cinque secoli di storia, vediamo che la spiritualità popolare è una strada originale sulla quale lo Spirito Santo ha condotto e continua a condurre milioni di nostri fratelli. Non si tratta soltanto di manifestazioni di religiosità popolare che dobbiamo tollerare, si tratta di una vera spiritualità popolare che deve essere rafforzata secondo le sue proprie vie. Dopo Aparecida non possiamo più trattare la pietà popolare come la Cenerentola di casa. È singolare:
 


nella redazione di Aparecida, quattro e tre giorni prima della votazione definitiva, il documento aveva ricevuto 2440 «modi», cioè emendamenti, che andavano risolti entro quei giorni. E tuttavia il capitolo sulla spiritualità popolare ricevette soltanto due o tre osservazioni, ma stilistiche, secondarie. Venne rispettato esattamente così com’era uscito dalla commissione in cui si era visto rispecchiato tutto l’episcopato che era là presente. Questo è un segno.

Non è la Cenerentola della casa. Non sono quelli che non capiscono, quelli che non sanno. Mi dispiace quando qualcuno dice: «Quelli dobbiamo educarli». Ci perseguita sempre il fantasma dell’Illuminismo, quel riduzionismo ideologico-nominalista che ci porta a non rispettare la realtà concreta. E Dio ha voluto parlarci tramite realtà concrete. La prima eresia della Chiesa è la gnosi, che già l’apostolo Giovanni critica e condanna. Anche al giorno d’oggi possono darsi posizioni gnostiche davanti a questo fatto della spiritualità  o pietà popolare. 

Sul tema pietà popolare negli ultimi tempi ci sono due pilastri insuperati, a cui bisogna ricorrere come fonti: la  Evangelii nuntiandi (che come esortazione apostolica sull’evangelizzazione ancora non è stata superata nel suo insieme) e Aparecida. Occorre fare ricorso a quelle fonti. Aparecida riprende e attualizza per la realtà del nostro continente l’insegnamento di Paolo VI nella Evangelii 
nuntiandi. 

Vi raccomando di leggere i punti in cui tratta il tema. Dal 258 al 265. Ciascuno di quei passi merita di essere meditato con attenzione. Dice, per esempio: «I nostri popoli si identificano particolarmente con il Cristo sofferente, lo guardano, lo sui piedi feriti, come a dire: questi è colui “che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Molti di essi, colpiti, ignorati e depredati, non abbassano le braccia. Con la loro caratteristica religiosità si aggrappano all’immenso amore che Dio ha per loro e che li fa tornare consapevoli della propria dignità. Trovano anche la tenerezza e l’amore di Dio nel volto di Maria. In lei vedono riflesso il messaggio essenziale del Vangelo» (DA 265).
 
Inoltre: «La pietà popolare è una modalità legittima di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa e una forma dell’essere missionari; in essa si sentono le vibrazioni più profonde della profonda America. Essa è parte dell’“originalità storico-culturale” dei poveri di questo continente, e frutto di “una sintesi tra le culture [dei popoli originari] e la fede cristiana”» (DA 264). 

Un’ultima citazione, molto importante: «Non possiamo svalutare la spiritualità popolare o considerarla una modalità secondaria di vita cristiana, perché sarebbe come dimenticare il primato dell’azione dello Spirito e l’iniziativa gratuita dell’amore di Dio» (DA 263). La pietà popolare è lo schiudersi della memoria di un popolo. È essenzialmente deuteronomica. Non possiamo comprenderla senza un inquadramento deuteronomico. E quella memoria si schiude in diverse maniere. Monsignor Tavella, arcivescovo di Salta negli anni Quaranta, racconta un aneddoto. Entra nella sua cattedrale e vede un indio che prega con enorme concentrazione davanti al Signore dei Miracoli. Lui recita il suo ufficio e l’indio se ne resta là, tranquillo. Insomma, si incuriosì e aspettò per vedere che cosa sarebbe successo. Dovette aspettare un buon tratto di tempo, finché l’indio non terminò. Allora gli si avvicinò. «La benedizione, 
padrecito», gli disse subito l’indio. Cominciando a conversare gli domandò: «Lei che cosa stava pregando? ». «Il catechismo, 
padrecito», rispose l’indio. Era il catechismo di san Toribio (secolo XVI). La memoria di un popolo. 

Un ricordo personale sulla pietà popolare. 

Per due anni sono stato confessore nella residenza di Córdoba. La residenza della Compagnia a Córdoba si trova in pieno centro, accanto all’università. 

Vi si confessano gli studenti universitari, i professori e persone dei quartieri popolari che quando vanno in centro ne approfittano per confessarsi perché il prete del quartiere non ha tempo per confessare alla domenica, visto che fa una messa dopo l’altra. E notavo che tra questi ultimi c’erano persone che si confessavano «bene». Non facevano perdere tempo. Dicevano quel che c’era da dire. Non dicevano mai qualcosa che non fosse peccato. Non si vantavano. Parlavano con molta umiltà. Un giorno chiesi a uno di questi di dove fosse. Ed era di Traslasierra. La memoria catechetica di don Brochero. Un popolo che si esprimeva così nel sacramento della riconciliazione (sono contento di ricordare quell’episodio proprio oggi, il giorno in cui a Roma è stato riconosciuto il miracolo del 
cura Brochero). La pietà popolare affluisce dalla memoria di un popolo e – ripeto – dobbiamo interpretarla in una cornice deuteronomica. La Chiesa ha fatto un’opzione preferenziale per i poveri e questo deve portarci a conoscere e ad apprezzare le loro maniere culturali di vivere il Vangelo. È bene – ed è necessario – che la teologia si occupi della pietà popolare, è il «prezioso tesoro della Chiesa cattolica in America Latina» , ci diceva Benedetto XVI inaugurando la Conferenza di Aparecida. 

Padre Tello offre un pensiero teologico solido del quale possiamo valerci per apprezzare questa spiritualità nelle sue vere dimensioni. Il punto di partenza è pensare all’uomo come un essere sociale per natura. Nessuno può vivere assolutamente isolato, tutti gli atti delle persone si danno in un ambiente storico che li condiziona, l’operato concreto è contrassegnato dalla cultura in cui si svolge. Nella dinamica della storia l’uomo crea la cultura e la cultura influisce sull’uomo. Con parole di Giovanni Paolo II: «L’uomo è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso » (FR 71). In questo la fede non fa eccezione. La fede si esprime sempre culturalmente. Il bambino l’impara dai genitori, dai maestri, dai catechisti, dall’ambiente. La fede è soprattutto una grazia divina. È anche un atto umano, e pertanto un atto culturale. Perciò si può parlare di un modo culturale di apprendere ed esprimere la fede. Perciò si può dire, come dice Tello, che quanto i nostri poveri esprimono nella loro pietà popolare sgorga da una fede vera, e che da questa fede sgorga anche un atteggiamento cristiano davanti alla vita. 

Quando come Chiesa ci accostiamo ai poveri per accompagnarli, constatiamo – al di là delle enormi difficoltà quotidiane – che vivono con un senso trascendente della vita. In qualche modo il consumismo non li ha ancora ingabbiati. La vita mira a qualcosa che va oltre questa vita. La vita dipende da Qualcuno (con la maiuscola) e questa vita ha bisogno di essere salvata. Tutto questo si trova nel più profondo della nostra gente, anche se è incapace di formularlo in termini concettuali. Il senso trascendente della vita che si vede nel cristianesimo popolare è l’antitesi del secolarismo che si diffonde nelle società moderne. È un punto chiave. Se volessimo parlare in termini antagonistico-aggressivi, diremmo che la fede del nostro popolo è uno schiaffo agli atteggiamenti secolarizzanti. Pertanto si può dire che la pietà popolare è una forza attivamente evangelizzatrice che possiede nel suo interno un efficace antidoto davanti all’avanzare del secolarismo. Aparecida si esprime con parole simili: «La pietà popolare, […] nell’ambiente secolarizzato in cui vivono i nostri popoli, continua a essere una grandiosa confessione del Dio vivente che agisce nella storia, e un canale di trasmissione della fede» (DA 264). 

La Chiesa è chiamata ad accompagnare e a fecondare incessantemente questo modo di vivere la fede dei suoi figli più umili. In questa spiritualità c’è un «ricco potenziale di santità e di giustizia sociale» (DA 262) di cui dobbiamo valerci per la Nuova Evangelizzazione. Come direbbe lo stesso Tello: il cristianesimo popolare dev’essere rafforzato con una pastorale popolare.

A cura di Redazione Papaboys fonte: Avvenire

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