Gioco di parole da brividi che mi torna in mente oggi con la storia di chi, invece che fermare la vita che sta per finire ha deciso di aggiungerle vita. Come intensità, come amore. Alla vita del figlio non poteva aggiungere neanche un minuto e allora ha deciso di aggiungere ai minuti tutta la vita. Di farli scoppiare di vita, quei minuti. E ci è riuscita. Come ha fatto? Si fa che gli dai un nome. “Le dia un nome signora. Come voleva chiamarlo? Shane? Ecco. Allora lo chiami così. Lo chiami. Gli parli”.
Chi lo ha detto che il dolore va metabolizzato? Il lutto superato? I traumi rimossi? La vita è fatta di giorni. È tessuta di tempo, nel tempo. E il tempo contiene tutto. I nostri dolori vanno vissuti perché sono nostri. Non sono belli ma sono nostri. Il dolore di un figlio che morirà dopo poche ore dalla nascita va vissuto. Va chiamato. Gli va preparata una cameretta nel proprio cuore cioè nella propria vita. Perché lì è stato concepito, nella vita, e lì deve vivere, anche se muore. Sei tu il mio sogno. Ora io ti vivo così come sei. E ti faccio vedere la vita. Pensavo ti avrei portato allo zoo e, in braccio, ti avrei indicato l’elefante: ok, lo facciamo con te nella pancia. Dovrò solo raccontartelo e prestarti i miei occhi. La vita se non la vedi, la senti.
“È vissuto meno di quattro ore ma ha realizzato tutti i suoi desideri.” Se la vita la consideri dall’amore che la riempie, se il sogno di ogni genitore è che il figlio realizzi i propri sogni, allora Shane è un bambino fortunato e quella famiglia è una famiglia felice. Perché la vita è vivere vivere vivere vivere. E loro hanno fatto questo, hanno vissuto.
“Shane ha vissuto la sua intera vita tra le braccia di persone che lo hanno amato incondizionatamente. Non si può chiedere una vita più bella”. Così hanno scritto i genitori di Shane su Facebook.
Leggo e mi commuovo. Chi non vuole una vita così? Chi non la desidera per chi ama? Eppure leggo sul social tanti commenti negativi e non li capisco. Molti sono scandalizzati e anche inorriditi, e io non capisco. Domando a chi ha scritto quei commenti su facebook: chi deve morire non può vivere? Non può vivere felice? Cos’ ha Shane in comune con noi? La sua morte. Moriremo come lui. E, se saremo stati amati, anche se avremo novant’anni ci sembrerà di aver vissuto tre ore. Se sei stato amato, sei felice, e quindi la vita ti sembra sempre troppo corta.
Forse la vicenda di Shane ci fa capire che il problema del fine vita è un problema dell’inizio vita.
Perché la vita la dobbiamo guardare non solo dalla fine ma anche dall’inizio, cioè dal cuore. Perché le vite iniziano dal cuore. Prima che concepiti, siamo desiderati. E l’impronta di quei desideri ci rimane addosso, ci rimane dentro. Come un Dna dell’anima che ci segna, ci identifica.
E allora per mantenere in vita una vita, una persona, bisogna amarla e si ama nel cuore. Non per nulla il bambino si forma e cresce sotto il cuore della mamma, intendo proprio quello del torace.
È sotto il miocardio che arriva il bambino. Sotto la cassa toracica, dove respira la mamma, dove pompa sangue la mamma. Partiamo da dove siamo iniziati per capire che senso ha dove finiamo.
E finché qualcuno ti porta nel cuore e continua a pomparti sangue, aria, amore e vita, tu vivi. E se muori, muori pieno di vita. di Mauro Leonardi (Prete e Scrittore) Articolo originale pubblicato su: Il Sussidiario
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