«I nostri fedeli non hanno ricevuto un solo centesimo dei fondi destinati ai profughi della guerra», aggiunge monsignor Komarica, evidenziando l’enorme disparità tra cattolici, musulmani e ortodossi. «A più di quindici anni dalla fine della guerra, oltre 4mila famiglie cattoliche non possono fare ritorno nelle proprie case, perché non viene loro garantito alcun aiuto». Oggi i cattolici bosniaci sono circa 440mila – quasi il 10% della popolazione – ma prima della guerra erano più di 835mila. La diminuzione dei fedeli è stata assai più drastica nella Repubblica Srpska, l’entità serba in cui si trova Banja Luka e dove vivono ormai solo 11.500 dei 220mila cattolici presenti prima del 1992. «Soltanto 5.800 degli oltre 70mila cattolici cacciati dalla nostra diocesi hanno potuto farvi ritorno – fa notare il presule – una possibilità che invece hanno avuto gli oltre 250mila musulmani».
Monsignor Komarica rintraccia le ragioni della difficile situazione dei cattolici e dell’attuale clima d’instabilità negli accordi di Dayton: il patto stipulato nel novembre 1995 che, oltre a sancire la fine del conflitto civile jugoslavo, ha stabilito la suddivisione della Bosnia Erzegovina in Federazione croato-musulmana e Repubblica Srpska. «Il paese è stato diviso arbitrariamente e ora l’unico futuro possibile è rappresentato da un caos sociale e politico, controllato da Unione europea e Stati Uniti. Si tratta di un vero e proprio tradimento dei valori e dei principi europei, un fallimento della comunità internazionale e una disgrazia per la politica nazionale».
La Chiesa cerca di rispondere alle esigenze della comunità cattolica e di contribuire a promuovere l’armonia tra i diversi gruppi etnici attraverso progetti educativi e sociali. Un esempio di tale impegno è costituito dalle scuole cattoliche – da sempre sostenute da Aiuto alla Chiesa che Soffre – in cui i bambini appartenenti a diverse etnie studiano insieme. «Allo stesso tempo continuiamo a batterci per i diritti dei nostri fedeli. I cattolici di etnia croata devono avere gli stessi diritti dei musulmani e dei serbo-ortodossi: devono poter tornare a casa e deve essere loro garantita la possibilità di ricostruirsi la vita nella propria patria».
Marta Petrosillo
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