A febbraio le giornate si allungano e nelle scuole italiane si comincia a parlare della gita di classe. Poco prima di Natale i riflettori si erano concentrati su una gita scolastica in Serbia, dalla quale erano tornate incinte sette ragazze, tutte tra i tredici e i quindici anni.
C’era chi accusava gli insegnanti, chi le famiglie o la mancanza di educazione sessuale. Mi colpì che si parlasse delle ragazze ma dei ragazzi non parlava nessuno. Eppure l’amore si fa in due, o no? C’era chi considerava le ragazze vittime di una società smarrita o di famiglie e insegnanti distratti; chi, pochi per fortuna, le accusava di essere precoci ninfomani o giovani donne non abituate a coltivare il rispetto per sé stesse.
Il peso era tutto su di loro, e sui ragazzi nemmeno una parola. Mi sembrò che quel silenzio fosse sintomo di quel maschilismo che è malattia cronica nella nostra società. Un’indulgenza implicita nei confronti del maschio che, essendo tale, è giustificato quando non sa dire “no, non ora, è troppo presto” o “non è il momento giusto”. Anzi, se dicesse quel no, tradirebbe la sua virilità.
Si trascurò poi di sottolineare qualcosa che mi sembra molto grave, e per questo ne parlo ora. Si dimenticò di dire che l’accettazione dello stereotipo “virilista” ha come importantissime vittime proprio quei tredicenni che erano i compagni di classe delle ragazze incinte, perché chi le aveva ingravidate erano dei giovani “maschi” quindicenni: non chi aveva due anni meno ed era loro compagno di classe.
Se vado davanti ad una scuola e guardo i tredicenni, vedo che arrivano alle spalle delle coetanee. Solo verso i quindici si pareggiano le altezze e si comincia ad intravedere un uomo. Un tredicenne ha ancora la stessa faccetta delle elementari. Non sembra neanche lontanamente un uomo e non è ancora avvelenato da quell’idea secondo cui “se non lo fa non è un uomo”. Però, poiché una ragazza di tredici o quattordici anni, oggi, spesso ha un corpo da donna, quel tredicenne è sottoposto a un’enorme pressione: qualcosa che sconfina nel bullismo.
Egli nota che la compagna di banco cerca l’attenzione “adulta” dei quindicenni che hanno fatto il salto ormonale. Gli stessi quindicenni da cui riceve sfottò, allusioni al fatto di essere un bambinetto, di non avere una sessualità e quindi di essere poco virile. Così quando ha quindici anni – o poco prima se il corpo glielo consente – ecco che arriva la gita di classe o anche solo la prima casa libera, e il quindicenne ragazzino si leva il pensiero, il peso, del sesso. Finalmente l’ha fatto pure lui. Lo racconterà con il gergo degli adolescenti,spaccone e volgare, che serve a mascherare le debolezze e le insicurezze di quell’età.
Certo è necessario interrogarsi sull’educazione sessuale degli adolescenti, ma deve essere una domanda più ampia del solito preservativo sì o no. Non è solo questione di Aids o di gravidanze. E neppure è una questione della singola ragazza o del singolo ragazzo. È una questione che riguarda tutti noi quella di parlare a un tredicenne trattandolo da tredicenne e aiutandolo ad essere ragazzo prima che uomo. Centrale deve essere la persona, non il sesso. Questa è l’educazione di cui hanno bisogno. Insegnar loro ad essere se stessi rispetto al gruppo che preme e spreme. Imparare a fare della propria vita il luogo di scelte libere, cioè scelte degne di un uomo. Le uniche degne di un uomo.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da L’Huffingtonpost