Continuano le tensioni in Burundi, dopo circa quattro mesi dalle elezioni vinte per la terza volta dal Presidente, Pierre Nkurunziza, e fortemente contestate dall’opposizione perché in violazione della costituzione che consente un massimo di due mandati. Nelle ultime 48 ore si registrano 7 vittime in diversi attacchi armati avvenuti nella capitale Bujumbura. Assalita anche la casa del sindaco.
Almeno 240 persone sono state uccise dall’inizio della crisi lo scorso aprile. E la scorsa settimana il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che esorta il governo burundese a convocare un dialogo con tutte le opposizioni. Marco Guerra ha fatto il punto della situazione conEnrico Casale, redattore della rivista “Africa” dei Padri Bianchi:
R. – Il nodo della questione burundese è la rielezione del Presidente Pierre Nkurunziza. Una elezione che è stata contestata apertamente già prima delle elezioni, che si sono tenute la scorsa estate. Nkurunziza ha forzato la mano candidandosi per la terza volta, contro i dettami della costituzione. Questo sua rielezione ha fatto sì che si accendessero gli animi e le tensioni tra il partito del Presidente e l’opposizione. Va considerato che in Burundi, come in altre parti dell’Africa, la società civile sta prendendo coscienza del suo ruolo e contesta queste tendenze di molti Presidenti africani a voler rimanere al potere a tutti i costi. Se da una parte questa crisi in Burundi è stata letta ancora come una tensione legata a fattori etnici, di fatto per il momento l’elemento etnico c’è, ma è rimasto un po’ ai margini; c’è invece una tendenza, una volontà di una democrazia autentica.
D. – Però queste tensioni non sembrano scemare: c’è anzi una escalation della violenze. Qual è la situazione sul terreno?
R. – Sul terreno la situazione è molto tesa, perché se da una parte l’opposizione ha iniziato a reagire in modo violento, dall’altra il Presidente – per riuscire a rimanere al potere – non solo ha messo in campo le forze armate e la polizia, ma ha addirittura attivato delle milizie, chiamando – ad esempio – i miliziani hutu dell’Fdlr, un movimento di hutu ruandesi che dopo il genocidio del ’94 si è rifugiato in Congo. Questi ribelli hutu ruandesi sono stati chiamati da Nkurunziza a suo sostegno. Tutto questo ha incancrenito la situazione, dandole una svolta ancora più violenta.
D. – Ma chi è che si sta opponendo al governo di Nkurunziza? Chi sta animando queste proteste?
R. – Sono certamente i partiti di opposizione e poi – come dicevo prima – una società civile che non accetta più questi compromessi e questi Presidenti a vita. Sono soprattutto i giovani che non vogliono più un sistema politico bloccato, così com’è accaduto in passato in molte parti dell’Africa e non solo in Burundi.
D. – La Comunità internazionale sta sollecitando colloqui politici per porre fine alla crisi. A livello regionale, ma anche internazionale, quali risvolti ci sono? Qual’è la situazione?
R. – Recentemente c’è stato un appello unitario dell’Onu, dell’Unione Europea e dell’Unione Africana, affinché la situazione si calmasse e il Presidente Nkurunziza accettasse un confronto per porre fine a questa crisi. Probabilmente l’unica soluzione sarebbe quella del dispiegamento di una forza multinazionale – da vedere se su base dell’Unione Africana o delle Nazioni Unite – per riuscire riportare la calma, soprattutto nella capitale Bujumbura che è la città più colpita da questi scontri.
D. – Quindi che cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi mesi?
R. – Se riuscissero ad esserci delle trattative, probabilmente si riuscirà a raggiungere un accordo per un passaggio, per una transizione non violenta. Al contrario, se Nkurunziza dovesse arroccarsi sulle sue posizioni il rischio – come ha detto lo stesso presidente ruandese Kagame – è che la situazione degeneri in uno scontro violento. Io non voglio evocare la parola genocidio, ma è certo che sarebbe uno scontro molto, molto sanguinoso.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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