È ancora critica la situazione in Burundi, percorso da sanguinose violenze da quando, nell’aprile scorso, il presidente Pierre Nkurunziza ha annunciato di voler correre per un terzo mandato, poi ottenuto nelle elezioni di luglio. Oltre 250 i morti negli scontri.
Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha nominato un consigliere speciale – il britannico Jamal Benomar – per tentare una difficile riconciliazione, mentre la Francia ha presentato al Palazzo di Vetro un progetto di risoluzione che chiede la fine dei combattimenti. In questo quadro, il partito al potere a Bujumbura, il Cndd-Fdd del presidente Nkurunziza, ha accusato il Belgio di “armare” l’opposizione con l’intento di “ricolonizzare” il Paese. Ma cosa servirebbe in questo momento al Burundi per ritrovare la pace? Giada Aquilino lo ha chiesto a padre Gabriele Ferrari, già superiore dei Saveriani, per anni missionario in Burundi:
R. – Al Paese servirebbe un momento di sapienza, di intelligenza, per non prolungare questa situazione che sta scivolando, se già non è scivolata, in una guerra civile. Sui vari siti che parlano del Burundi si fanno addirittura confronti con la situazione del Rwanda al tempo del genocidio.
D. – Perché è stato evocato lo spettro del genocidio del Rwanda? Cosa sta succedendo?
R. – Questa crisi, che era in sé soltanto di tipo politico e sociale, sta scivolando in una crisi etnica. I centri di maggiore contestazione al presidente Nkurunziza sono quelli dei quartieri abitati prevalentemente dai Ba-Tutsi e, quindi, si sta dicendo che i Ba-Tutsi sono contro il governo. Al contempo, il governo non può ignorare che molta opposizione gli viene anche dall’ambito dei Ba-Hutu. Quindi adesso, secondo me, la ‘carta’ del governo è quella di mettere contro i Tutsi e gli Hutu. Ma così evidentemente si rischia una forma di lotta etnica: che scivoli nel genocidio… io spero proprio di no, però il pericolo c’è. È un pericolo che non è mai stato del tutto esorcizzato: è un male che per un po’ di tempo è stato “quietato”. Oggi però siamo di nuovo alla guerra civile.
D. – ‘Human Rights Watch’ ha denunciato che il presidente Nkurunziza sta incoraggiando le forze di sicurezza a utilizzare tutti i mezzi a disposizione per ripristinare l’ordine. Così facendo – evidenzia l’organizzazione – starebbe provocando una nuova ondata di violenza. Qual è la situazione sul terreno?
R. – La situazione sul terreno è che i morti continuano a moltiplicarsi: mi dicono che ogni mattina se ne trovano sulla strada. Molti, oltretutto, torturati; si tratta di gente uccisa e lasciata lì sulla strada, a “monito” per gli altri. Si potrebbe definire un “terrorismo” messo in atto dal governo che crede così di prendere in mano la situazione: ma secondo me non la prenderà in mano o, meglio, se ci riuscirà lo farà con la forza del terrore e della morte.
D. – Lei ha ricordato gli anni della guerra civile che è terminata nel 2005. Cosa rimane di quel periodo tra la popolazione?
R. – Tra la popolazione rimaneva un grande bisogno di pace e sembrava inizialmente che questa ci fosse. Ma poi, progressivamente, Nkurunziza ha mostrato il suo vero volto: il volto di un dittatore che non vuole alcuna contestazione o opposizione e che fa di tutto per tenere il Paese sotto controllo. Si è dato in mano a bande di giovani – che non sono poi tanto giovani, c’è dentro di tutto – i quali sono il braccio armato del governo: si chiamano “Imbonerakure”, che vuol dire “coloro che sono capaci di vedere più lontano”. Sono dei giovani aderenti al partito o tirati dentro: c’è tanta gioventù che non sa cosa fare sulle strade di Bujumbura e quindi è facile arruolarla in bande armate.
D. – E la gente in generale come vive oggi in Burundi?
R. – Nel terrore. Ho ricevuto una mail pochi giorni fa in cui mi dicono che la gente fugge, scappa. Non si sa più quanti sono andati all’estero. Ieri sul sito del “Burundi – Africa Time” c’era la foto di gente che scappa su biciclette cariche di bagagli e effetti personali e il titolo era: “La gente fugge dalla violenza di Bujumbura”. In questo quadro, poi, c’è un altro fattore: Nkurunziza oggi ha l’appoggio finanziario della Cina, la quale compra il Burundi a pezzi. E forse l’ha già comprato, secondo me.
D. – Da missionario che è stato tanti anni in Burundi, quali sono le sue speranze?
R. – La realtà della gente che vuole la pace in qualche modo spinge: è una forza, una reale forza! Alla fine la voglia di pace, soprattutto coltivata nella preghiera, nell’ascolto della parola in comune, sarà capace di muovere le persone.
Redazione Papaboys (Fonte it.radiovaticana.va)
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