Suor Lucia Sabbadin racconta la sua vita in prima linea: la fuga dal Burundi, dal Congo, l’arrivo in Camerun nel 2008. «Tante difficoltà, ma l’Africa resta la terra di un popolo giovane pieno di speranze»
Il 10 agosto del 1980, già medico e suora maestra di Santa Dorotea, Lucia Sabbadin, metteva piede sul suolo del Burundi, a Rukago. Per sette anni ha condiviso la vita di quel popolo povero, semplice ma ricco di valori umani e cristiani. «In ospedale, giorno e notte, abbiamo curato mamme e bambini, che venivano per essere vaccinati, ma soprattutto abbiamo dato loro indicazioni sull’educazione sanitaria. Oltre alla cura, l’educazione: abbiamo formato decine e decine di infermiere. Quel centro sanitario era il polmone della missione». Poi, prima del colpo di Stato, cominciarono le espulsioni. «Purtroppo le conseguenze sono state disastrose per la salute e per l’educazione del popolo. Il Burundi sta di nuovo passando un momento critico, speriamo che non si ripetano i disastri del passato. Per vent’anni, poi, sono stata a Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo, in un ospedale che ha vissuto una vera rivoluzione. Dal 2008 mi trovo in Camerun, in un Paese apparentemente più evoluto, dove convivono situazioni umane e sociali catastrofiche: famiglie inesistenti o lacerate, bambini e giovani allo sbando, corruzione, corsa al potere e la minaccia folle di Boko Haram partita dalla Nigeria».
Il continente resta una terra satura di problemi. «La vita sociale in Africa è segnata da conflitti armati, da massacri e sfruttamenti perpetrati nella più grande impunità e spesso incoraggiati dai responsabili politici mossi dalla sete del potere e del denaro piuttosto che dalla volontà di servire il popolo. Vere e proprie dittature su scala continentale che allargano il fossato già esistente tra ricchi e poveri».
Ecco perché la Chiesa in Africa deve «insistere sulla riconciliazione, sulla giustizia e sulla pace. È un programma ardito: gli africani sono molto religiosi e disponibili a celebrare nella liturgia il Dio della vita, purtroppo, però, quando vogliono incarnare la fede nella quotidianità si trovano in difficoltà perché si confrontano con ostilità e crimini in nome dei clan, dell’etnia e della tribù. Oppure si confrontano con tradizioni ancestrali dove la magia, la stregoneria e altre credenze possono mettere a nudo la loro fede».
Il beato Paolo VI il 31 luglio del 1969 a Kampala si espresse così: «Africani voi siete ormai i missionari di voi stessi». «La missione in Africa appartiene a loro. La prima sfida è la formazione delle coscienze. È importante che l’evangelizzazione sia solida e missionaria, rafforzando un itinerario di fede che copra l’esistenza dall’infanzia fino all’età adulta».
Tra le priorità, è necessario umanizzare i rapporti tra le persone nella scuola, in ospedale, in carcere e nei luoghi pubblici. Oggi più che mai si assiste all’homo homini lupus anche in Africa. «Nel carcere di Yaoundè, dove sono rinchiuse più di 4mila persone, la disumanizzazione è al culmine non solo per la promiscuità e per la mancanza di spazio, di igiene, di acqua e di cibo, ma soprattutto per mancanza di rispetto dell’altro». Lì presta il suo servizio come medico una volta alla settimana per curare le malattie fisiche, ma anche per portare sollievo spirituale, per dare ascolto, per compatire e sostenere i fratelli. «Se a livello politico e sociale, spesso l’orizzonte – precisa – resta oscuro, alla base ci sono tanti germi di speranza e risorse umane e cristiane promettenti perché il continente africano resta la terra di un popolo giovane pieno di speranze che vuole vivere e preparare un avvenire migliore. La vita che esplode si percepisce ovunque. Basta entrare in una chiesa o in una scuola per incontrare tanti giovani pieni di energia e fiducia. Tanti cristiani in Africa sono stati eliminati, falciati dall’odio perché hanno scelto con piena consapevolezza di restare accanto al loro popolo per condividere il destino e accompagnarlo nella lotta per la libertà e la dignità umana».
Tante forze negative rischiano di porre un freno all’entusiasmo e all’amore. E ardere per accendere è il motto della sua congregazione. Concretamente, si occupa insieme ad altre suore del progetto «Insieme per uno sviluppo integrale delle cure accessibili»: l’obiettivo è «acquisire medicinali di qualità, non contraffatti, e assicurare ai più poveri l’accessibilità alle cure. In un primo tempo vogliamo creare un grande magazzino, acquistando medicinali per poi rivenderli a un prezzo accessibile ai centri sanitari. Siamo così fiduciosi di venire incontro a tanti poveri per i quali non esiste il diritto alla salute».
Di Luciano Zanardini per Vatican Insider (La Stampa)