“Annuncio, unità e carità”: sono i tre pilastri che il cardinale Gualtiero Bassetti indica come fondamentali del suo mandato come presidente della Conferenza episcopale italiana, alla cui guida è stato nominato il 24 maggio scorso. Nella nostra intervista, l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve si sofferma su alcuni temi pastorali e di attualità: dal rapporto fra il vescovo e i sacerdoti alla vicenda di Charlie Gard, il bimbo di 11 mesi affetto da una rara malattia genetica, i cui genitori continuano a battersi perché non gli siano staccate le macchine ma possa essere sottoposto ad una terapia sperimentale negli Stati Uniti.
Sentiamo dunque nell’intervista quali i passi che il cardinale Bassetti vuole percorrere nella sua azione pastorale:
R. – Il primo punto è l’annuncio: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”. Il Santo Padre nell’Evangelii gaudium ci ha indicato nuove forme di annuncio che possono veramente aiutarci a portare il Vangelo a tutti, ai lontani. Il Vangelo è proprio questo spirito di un annuncio di gioia, che poi è anche il tessuto connettivo di tutti i documenti del Papa: la gioia. Evangelii gaudium, Amoris laetitia, Laudato si’, sono tutte tematiche che richiamano la gioia di questa nostra appartenenza cristiana. Il secondo punto è l’unità e mi riferisco naturalmente alla Chiesa di Dio, che è in Italia. Unità non significa essere conformisti o essere unanimi in tutto: l’unità si esprime attraverso il dialogo, la collegialità, una maggiore collegialità prima di tutto fra i vescovi ma anche con tutto il corpo della Chiesa. Cercare unità nella Chiesa significa essere umili, significa essere docili al soffio dello Spirito Santo e farsi guidare da Lui. Poi, al terzo punto, la carità che però vorrei coniugare insieme a tre grandi temi: il lavoro, la famiglia e le migrazioni. Questo sarebbe un po’ il mio programma oppure l’atteggiamento di fondo con cui muovere i miei primi passi come presidente della Cei.
D. – “L’uomo ha bisogno del pane e della grazia”, diceva il Servo di Dio e sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, una delle figure a cui Lei si è richiamato, così come anche ai due sacerdoti, don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani sulle cui tombe si è recentemente recato a pregare Papa Francesco. Qual è il filo rosso che unisce queste tre figure?
R. – La Pira, Mazzolari e Milani: queste tre figure pur diversissime fra loro, sono unite, secondo me, dalla fortissima vocazione ad andare verso gli ultimi, i poveri, nonostante tutte le difficoltà che tutto ciò naturalmente comporta. E la loro forza sta proprio qui: nell’impegno totale di rimanere sempre dentro la Chiesa nonostante le incomprensioni e le chiusure.
D. – Il Papa più volte è tornato sul rapporto fra il vescovo e i sacerdoti sottolineando che il vescovo nella sua diocesi deve essere vicino ai preti, prendersi cura di loro. Come presidente della Cei, questo sarà un tema al centro della sua azione pastorale?
R. – Assolutamente sì. Vorrei che i preti avessero quell’odore delle pecore, cioè che stessero vicino alla gente, che si sporcassero anche le mani nel servire la gente. E il vescovo deve prendersi cura dei suoi preti e formarli a questo tipo di servizio. Tornando a casa, dopo l’elezione a presidente della Cei, facevo una riflessione dentro di me: “Tante cose ora le devo delegare al mio ausiliare ma due cose assolutamente come vescovo non delegherò mai a nessuno: la vicinanza ai preti e la vicinanza ai seminaristi. Presenza e vicinanza. Il vescovo non può chiudersi nel palazzo episcopale altrimenti cesserebbe la sua missione. Quella dei vescovi – io lo capisco sempre di più, dopo 24 anni di episcopato – è una missione complessa ma io dico anche “grazie” al Signore per questa chiamata, perché è una missione bellissima. Ricordo il giorno della mia ordinazione episcopale, l’8 settembre del 1994, quando il cardinale Silvano Piovanelli, il mio vescovo, mi disse: “Ricordati che essere vescovi vuol dire per tutta la vita servire, per amore”.
D. – Parliamo della vicenda del bimbo di 11 mesi Charlie Gard, sulla quale è intervenuto il Papa e Lei stesso, per difendere il diritto dei genitori a curare il figlio. Cosa pensa di questa vicenda? Si tratta anche di una questione antropologica sul valore della vita umana, anche se malata e quindi è un richiamo a non anestetizzare la coscienza?
R. – Entrambe le cose. E’ chiaro che la questione è strettamente antropologica e soprattutto non si deve mai addolcire, peggio ancora anestetizzare la coscienza, sul fatto della vita perché la nostra vita è eterna, comincia su questa terra e durerà per sempre. Va vista anche sub specie aeternitatis (sotto l’aspetto dell’eternità n.d.r.). Allora è una questione antropologica e anche spirituale. Quindi, la vita va difesa e protetta anche quando siamo in presenza di una malattia, che noi possiamo giudicare una malattia gravissima. Perché la vita va difesa e protetta? Il Papa l’ha detto con una chiarezza estrema: perché non esiste nessuna vita che non sia degna di essere vissuta. Altrimenti cadiamo nella cultura dello scarto e questo è terribile perché ciò che si scarta vuol dire che è inutile. E allora vorrebbe dire che esistono delle vite inutili che non sono degne di essere vissute. La vita, invece, è sempre un dono, una relazione. Pensate che forma di relazione è stata ed è di fatto la vita di Charlie: tutto il mondo in qualche modo si è concentrato attorno a lui, non solo la sua grande e nobile famiglia ma nazioni intere si sono concentrate attorno a questo fatto perché c’è una vita e perché la vita è relazione, capace di coinvolgere anche l’opinione mondiale. La vita, quindi, non è mai un fatto unilaterale: anche la vita di una sola persona sulla terra, ci coinvolge tutti.
Fonte it.radiovaticana.va/Debora Donnini
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