R. – Ieri sera abbiamo celebrato la Messa con la comunità della diocesi di Duhoc, in una cattedrale colma di uomini e donne venuti per questa celebrazione. E’ stato un momento molto bello, perché abbiamo potuto così condividere con i rifugiati un momento di preghiera, e a dodici di loro io ho lavato i piedi. Ho illustrato proprio questo segno e i momenti dell’istituzione dell’eucaristia, del sacerdozio e del servizio alla Chiesa, e questo è stato molto bello. La gente era molto contenta e ha dato l’impressione anche di una partecipazione ad un antico rito caldeo, in aramaico, in cui sembrava quasi di sentire le stesse parole di Cristo, pronunciando le loro parole. Quindi, un momento molto bello.
D. – Si sente in Iraq, in questi giorni, con la sua presenza, la vicinanza di Papa Francesco? Che cosa dicono le persone che lei incontra?
R. – Ovviamente le persone sanno che io vengo qui a nome di Papa Francesco. La gente più volte mi ha detto: “Siamo molto grati, perché il Papa ancora una volta ha mostrato di non essersi dimenticato di noi”. E’ una presenza, quindi, che percepiscono in questo modo. Anzi, più volte mi dicono: “Quando viene personalmente?” Questo segno, dunque, di affetto, di gratitudine, di riconoscenza. Naturalmente, anche le stesse autorità ci dicono: “Speriamo che un giorno il Papa venga”. Io ho assicurato che è nel cuore e nella mente del Papa. Quindi, questa vicinanza del Papa alle loro sofferenze, alla storia di questo momento del Paese – dell’Iraq, del Kurdistan – con la guerra, con le famiglie dei rifugiati, con i problemi che naturalmente in tutti i luoghi ci sono, e qui in modo particolare.
D. – Molti Paesi occidentali stanno facilitando le pratiche di immigrazione per le famiglie siriane ed irachene. Queste misure non rischiano di aggravare l’esodo dei cristiani della regione?
R. – Indubbiamente, questo aspetto contribuisce all’impoverimento della presenza cristiana, ma ovviamente non posso dire che sia solo questo. Io, ovunque sia andato, ho trovato rarissime persone – con le quali abbiamo avuto un dialogo – che abbiano detto che vorrebbero andar via. Sono veramente molto, molto rare. La maggior parte dice: “Noi vogliamo ritornare nei nostri villaggi; la nostra presenza qui è importante, è storica. L’unica cosa che chiediamo è di avere questa certezza di poter ritornare in sicurezza nelle nostre case”. Anche la pazienza che mostrano, dopo otto mesi, in cui sono stati cacciati via dalle loro case, questa pazienza non è legata alla speranza di andarsene, ma soprattutto alla speranza di rientrare nei loro villaggi e riprendere la loro vita. Quindi, vorrei dire che, da una parte, ovviamente, non si può non comprendere lo stato d’animo di chi forse si sente ormai stanco e non vede un futuro. Ma devo dire che la grande maggioranza, per non dire tutti quelli che ho incontrato, manifesta invece la certezza di voler rimanere qui. Da parte nostra io ho assicurato che fin quando un cristiano sarà in Iraq noi vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, staremo qui con loro. Questo naturalmente dà loro la sensazione di non essere dimenticati o comunque abbandonati e quindi di poter contare anche sulla presenza della Chiesa qui.
D. – Come celebrerà la Pasqua?
R. – Sto celebrando questi giorni nei vari villaggi e ho detto che sto facendo un pellegrinaggio tra di loro. Oggi e ieri, con loro, ho vissuto la parte del Giovedì Santo e questa sera sarò ad Erbil, dopo Duhoc. Celebrerò la notte di Pasqua nel campo dei rifugiati della diocesi di Erbil. La mattina di domenica, a mezzogiorno, celebrerò la Messa con le famiglie. La sera, rientrando, passerò per altri luoghi dove ci sono alcune famiglie di rifugiati. E’ una Pasqua, dunque, passata con loro, credo molto bella, unica e pienissima di esperienze. Devo dire, infatti, che da parte di questa gente ricevo una straordinaria testimonianza di fede ed anche di carità. Una Pasqua unica, dunque, particolare, molto bella.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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