R. – Direi prima di tutto il fatto che io ho qualificato questa visita in Iraq come “un pellegrinaggio”. E naturalmente questo pellegrinaggio si è svolto facendo un po’ le stazioni durante la Settimana Santa, perché la visita a questi fratelli e sorelle iracheni non poteva essere né una semplice visita, nè un tour qualsiasi: la Settimana Santa ci portava a vedere le sofferenze di tutti questi fratelli vicine al Mistero della sofferenza di Cristo. Il Papa era molto attento a questo aspetto e si è poi naturalmente anche interessato a conoscere le varie tappe: quindi cosa ho visto, quale fosse la mia testimonianza e quale fossero le situazioni che io ho incontrato. E’ stato un momento di ascolto con brevissime interruzioni e un prendere conoscenza dell’attuale stato in cui vivono questi migliaia di profughi, cristiani e non cristiani. Quindi anche con gli incontri e con le visite che ho ricevuto. Direi che il Papa era molto impressionato da questi otto mesi di vita eroica di queste persone, che – come dicevo – si trovano a vivere ormai in una situazione di sopportazione notevole. Pensiamo a tutti i disagi e alle ristrettezze in cui vivono; alla mancanza di spazi vitali; ad una convivenza forzata in tanti luoghi; alla condivisione di tutto quello che è poi strettamente necessario per la vita quotidiana; pensiamo ai servizi igienici, pensiamo ai luoghi nei quali i bambini, gli ammalati e le persone più anziane vivono. Diciamo che l’aspetto umanitario, oltre che quello spirituale, è stato oggetto di un’attenta considerazione, riflessione e ascolto del Papa.
D. – Ha detto al Papa che i cristiani iracheni lo stanno aspettando in Iraq?
R. – Indubbiamente i cristiani iracheni lo attendono. Erano molto contenti di questa visita, ma naturalmente aspettano anche, un giorno, quella del Papa. Direi che non sono soltanto i cristiani iracheni ad aspettare il Papa, perché le autorità tutte, più volte, mi hanno detto che la visita del Papa sarebbe non solo utile, ma anche opportuna in questo momento e in questi tempi. Hanno quindi rinnovato l’invito affinché il Papa visiti l’Iraq, venga in queste zone dove vivono i rifugiati. Credo che da parte di tantissimi – e non solo cristiani – ci sia il desiderio e un’attesa della visita del Papa.
D. – Eminenza, che risonanza hanno in Iraq gli appelli del Papa per i cristiani perseguitati?
R. – Io ho trovato che questi appelli sono prima di tutto ascoltati e poi fanno parte proprio di una visione che a livello politico, ma anche a livello ecclesiale e poi anche da parte della gente, sono ascoltati perché significano che noi non abbiamo dimenticato la situazione, la condizione in cui vive il Medio Oriente in generale e ovviamente l’Iraq in particolare. Oggi la risonanza degli appelli del Papa riguardo ai cristiani, al martirio, ai cristiani che confessano la fede, che lasciano tutto è direi impressionante! Le autorità civili da questo punto di vista sono ben consapevoli e le autorità religiose naturalmente – da parte loro – apprezzano molto questa sensibilità, questo richiamo, affinché non ci si addormenti perché il fatto che se ne parli di meno non vuol dire che siano stati risolti.
D. – Cardinale Filoni, ci sono speranze per il futuro dei cristiani in Iraq?
R. – La speranza è stata la virtù che io sono andato in giro a predicare. In tutti i miei incontri, i numerosi incontri che ho avuto con le comunità cristiane, ho detto che la nostra fede è fondata proprio su queste tre virtù teologali, che sono appunto la fede, la carità e – anche se a volte può sembrare la più piccola, come diceva Peguy “la virtù più piccola”– la speranza, ma che in fondo è poi quella che tiene e lega insieme sia la fede sia la carità: se manca la speranza la carità perde consistenza e la fede stessa manca di slancio. Quindi la speranza è quella che tutti nutrono e tutti dicono: “Noi vorremmo, vogliamo, speriamo, attendiamo di ritornare nei nostri villaggi”… Tutta la gente che ho incontrato – eccetto una sola persona che mi ha detto che avrebbe preferito migrare – mi ha detto – e sono decine e decine, centinaia e centinai di persone che ho incontrato – che aspettano di tornare e che non vedono l’ora di tornare nei propri villaggi. Certo, anche questo non sarà facile. Ma l’idea stessa di poter ritornare nel proprio ambiente dà loro lo slancio anche di dover affrontare poi tutti i problemi di un ritorno. Immaginiamo che sono case che sono state saccheggiate, a volte distrutte, a volte con tutti quei problemi di un ritorno che non sarà comunque facile. Questa speranza, però, di poter ricominciare l’ho trovata fortissima e – ripeto – è stata la virtù che io ho predicato di più.
D. – Cosa le ha lasciato, eminenza, questa sua missione in Iraq?
R. – Mi ha dato la sensazione che, a otto mesi dalla precedenti, loro attendevano un segnale che non li avessimo dimenticati. E questa è stata la mia sensazione più forte, ritrovando molte persone che avevo già visto, incontrando leader che già avevo visto. Si è trattato di un discorso, di una visita che era non solo sperata, ma anche e soprattutto attesa. E’ stata necessaria! A mio avviso era necessaria: tutti mi hanno ringraziato ed erano contenti, veramente molto contenti. Non c’era più lo shock, il trauma di chi ha dovuto abbandonare la propria casa… C’è stato anche il momento gioioso della preghiera, tutti chiedevano una benedizione. Entrando nelle case e visitando la gente, mi dicevano: “La sua presenza per noi è già benedizione”. Questo è nello stile un po’ della fede di questa gente, semplice, profonda, ma anche con una visione che ha radici in una storia fatta di tante sofferenze, di tanti problemi che ci sono stati. Direi che, da parte mia, la mia sensazione è stata personalmente di un arricchimento spirituale davanti al modo in cui questa gente affronta la difficoltà; da parte loro, direi proprio una visita attesa, gradita, che li ha aiutati e confortati un po’ nelle attuali vicende che stanno vivendo.
A cura di Redazione Papaboys fonti:Radio Vaticana e TV 2000
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