Card. Ratzinger: Ecco perchè non bisogna rassegnarsi all’aborto

Il 6 giugno 1978, entrò in vigore la legge 194. Pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 22 maggio, cominciò ad essere applicata dopo il rituale periodo di “vacatio legis”: 15 giorni dopo. Ci separano da quella data cinque milioni di aborti timbrati dallo Stato ed eseguiti nella forma del servizio sociale. Sono stati anche trent’anni di discussione sulla legge. Quanto meno il “popolo della vita” ha impedito che il capitolo fosse chiuso. È valsa e vale la pena? Questa domanda la pose Benedetto XVI, allora cardinale Ratzinger, il 19 dicembre 1987, concludendo un convegno su “Il diritto alla vita e l’Europa”. Oggi quando la discussione sulla Legge 194 è diventata più vivace, la rilettura di quel discorso è particolarmente opportuna. Nell’impossibilità di riportare l’intero testo, ne riprendiamo soltanto qualche brano.

 Ad una diffusa opinione pubblica di benpensanti può sembrare esagerato e inopportuno, anzi addirittura fastidioso che si continui a riproporre come questione decisiva il problema del rispetto della vita appena concepita e non ancora nata. Dopo i laceranti dibattiti concomitanti alla legalizzazione dell’aborto (avvenuta nell’ultimo quindicennio in quasi tutti i paesi occidentali) non si dovrebbe considerare ormai risolto il problema ed evitare quindi di riaprire ormai superate contrapposizioni ideologiche? Perché non rassegnarsi ad aver perso questa battaglia e non dedicare invece le nostre energie ad iniziative che possono trovare il favore di un più grande consenso sociale? Restando alla superficie delle cose, si potrebbe essere convinti che, in fondo, l’approvazione legale dell’aborto ha cambiato poco nella nostra vita privata e nella vita delle nostre società. In fondo tutto sembra continuare esattamente come prima. Ognuno può regolarsi secondo coscienza: chi non vuole abortire non è costretto a farlo. Chi lo fa con l’approvazione di una legge – così si dice – forse lo farebbe comunque. Tutto si consuma nel silenzio di una sala operatoria, che almeno garantisce condizioni di una certa sicurezza dell’intervento. Il feto che non vedrà mai la luce è come se non fosse mai esistito. Chi se ne accorge? Perché continuare a dare voce pubblica a questo dramma? Non è forse meglio lasciarlo sepolto nel silenzio della coscienza dei singoli protagonisti? (…) Il riconoscimento della sacralità della vita umana e della sua inviolabilità senza eccezioni non è un piccolo problema o questione che possa essere considerata relativa, in ordine al pluralismo delle opinioni presenti nella società moderna. Il testo della Genesi orienta la nostra riflessione in un duplice senso, che ben corrisponde alla duplice dimensione delle domande che ci eravamo posti all’inizio: non esistono «piccoli omicidi»: il rispetto della vita umana è condizione essenziale perché sia possibile una vita sociale degna di questo nome; quando nella sua coscienza l’uomo perde il rispetto per la vita come cosa sacra, inevitabilmente egli finisce per smarrire anche la sua stessa identità (…).

Nella sua prefazione al noto libro del biologo francese Jaques Testart, L’oeuf transparent, il filosofo Michel Serres (apparentemente un non credente), affrontando la questione del rispetto dovuto all’embrione umano, si pone la domanda: «Chi è l’uomo?». Egli rileva che non vi sono risposte univoche e veramente soddisfacenti nella filosofia e nella cultura. Tuttavia egli nota che noi, pur non avendo una definizione teorica precisa dell’uomo, comunque nell’esperienza della vita concreta chi sia l’uomo lo sappiamo bene. Lo sappiamo soprattutto quando ci troviamo di fronte a chi soffre, a chi è vittima del potere, a chi è indifeso e condannato a morte: «Ecce Homo!». Sì, questo non credente riporta proprio la frase di Pilato, che aveva tutto il potere, davanti a Gesù, spogliato, flagellato, coronato di spine e ormai condannato alla croce. Chi è l’uomo? È proprio il più debole e indifeso, colui che non ha né potere né voce per difendersi, colui al quale possiamo passare accanto nella vita facendo finta di non vederlo. Colui al quale possiamo chiudere il nostro cuore e dire che non è mai esistito. E così, spontaneamente, ritorna alla memoria un’altra pagina evangelica, che voleva rispondere ad una simile richiesta di definizione: «Chi è il mio prossimo?» Sappiamo che per riconoscere chi è il nostro prossimo occorre accettare di fare il prossimo, cioè fermarsi, scendere da cavallo, avvicinarsi a colui che ha bisogno, prendersi cura di lui. «Ciò che avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli lo avrete fatto a me» (Mt 25,40). a cura di Giovanni Profeta

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