Eminenza, sarà il 2014 l’anno della ripresa? Sicuramente l’atteggiamento della “ripresa” è connaturato all’uomo. Lo dicevo ai detenuti di Opera che ho incontrato la vigilia di Natale. Il tempo dell’espiazione, dicevo loro, non può non essere tempo di ripresa. Ogni uomo, per il suo limite e la sua fragilità, ha bisogno di “riprendere”. Nella vita associata questa dinamica si impone, evidentemente sotto forme diverse, come una gravosa urgenza, ma è impossibile assecondarla se non si parte dalla persona. Credo che il 2014 possa segnare un inizio di ripresa. Non anzitutto perché il Pil non sia più in caduta libera o perché i complessi problemi sociali trovino una via di soluzione, o perché si sblocchi il grave incartamento politico che ancora persiste. Non intendo ovviamente sottovalutare questi aspetti assai problematici della crisi, ma sono convinto che una ripresa sarà possibile nella misura in cui il nuovo anno ci vedrà impegnati, in prima persona, con un senso di amicizia civica più magnanimo. Senza “ripresa” di questa attitudine sarà impossibile la speranza al suo livello adeguato. E senza speranza non c’è energia per la ripresa.
E qual è «il livello adeguato della speranza»? È il soggetto umano, costituito da un “io” e da un “noi” – non si possono mai separare questi due fattori. L’io è concepibile solo in relazione. Un “io” così ha trovato sempre, anche nelle peggiori situazioni, la forza per riemergere. Allora la domanda diventa: chi me la dà questa forza? Su questo l’uomo del terzo millennio si trova di fronte ad un’alternativa radicale che ha quasi il sapore della famosa scommessa pascaliana. Chi vuol essere? Vuol essere Narciso – figura tornata di grande attualità – cioè uno che, dal mattino quando si alza fino alla sera quando va a letto, occupa tutta la scena; o vuol essere un uomo che è continuamente rigenerato da relazioni, attraverso le quali tiene vive e approfondisce le domande costitutive? Queste, alla fine, si possono tutte condensare in una: chi mi as-sicura? Cioè: chi mi garantisce che il desiderio del cuore umano di durare per sempre, oltre la morte – comunque venga interpretato – trovi risposta? E qui torna la grande questione: che peso vogliamo dare noi a Dio, che imponenza ha Dio nel nostro quotidiano, nel modo di vivere gli affetti, il lavoro, il riposo, il dolore, la giustizia, l’educazione? Che posto ha Dio? Soprattutto noi europei, prendiamo in considerazione la nostra attuale, pesante stanchezza? Non ci chiediamo se proprio l’aver trascurato fino a ignorarla la domanda su Dio – quel quaerere Deum (fare spazio a Dio) che per secoli ha nutrito la nostra storia – non sia all’origine di una società che, pur sbandierando continuamente libertà e diritti, nei fatti è una società in cui le libertà realizzate sono molto scarse. Quando manca massicciamente il lavoro, quando i giovani non hanno prospettive, né educazione, né formazione, quando vecchi e bambini vengono esclusi, nella loro fragilità, significa che le libertà e i diritti primari, nei fatti, sono di là da venire. Il tempo natalizio viene a sostenere la svolta dell’uomo postmoderno annunciando che nel Dio che si è fatto bimbo si svela il senso della nascita, di ogni nascita. E quindi di ogni rinascita. E la ripresa è un nuovo inizio, una ri-nascita. Bisogna che per questo nuovo inizio tutti ci mettiamo, con speranza, al lavoro.
Cosa può significare “nuovo inizio” per un paese come il nostro le cui speranze di cambiamento sembrano costantemente mortificate dall’insistenza sul negativo, su ciò che ci manca piuttosto che su quel che abbiamo, di positivo? Due fattori, oltre a quelli strutturali legati al mito della tecnocrazia (che va ridimensionato: i tecnici sono necessari ma non si deve delegare tutto a loro) mi sembrano decisivi. Al di là della complessità dei problemi della finanza e della produzione, l’Italia possiede due grandi risorse. La prima è la straordinaria ricchezza della nostra società civile. In Europa non ce n’è una uguale. Dovunque (parrocchie, città, paesi…) io vada, mi imbatto in centinaia di associazioni che si occupano di tutto. Al di là del livello locale, questo immenso patrimonio di umanità non è adeguatamente valorizzato. Invece, proprio a partire da questa varietà e ricchezza di presenza si potrebbe immaginare, per esempio, un nuovo tipo di welfare, di benessere sociale. E qui vengo al secondo fattore: questo compito spetta alla politica. Dire che i partiti sono in crisi è, ormai, una banalità. Inesorabilmente sono destinati a cambiare. La politica, infatti, ha il dovere di raccogliere la vitalità della società a tutti i livelli e di incanalarla a un effettivo bene comune. Senza questo nesso tra vitalità sociale e compito politico non si può realizzare una “democrazia sostanziale”.
Si può dire che, come ci pare lei abbia ben colto nel suo intervento di inizio d’anno, sarebbe anche ora che la politica, dopo essere stata spregiata e messa al bando per tanti anni, tornasse finalmente protagonista alla guida del paese? Certamente sì. Ma questo domanda, come ho già detto, a ogni singolo cittadino e a ogni singolo politico un diverso senso dell’amicizia civica. La dialettica politica è inevitabile, ma deve restare dentro questa amicizia. Non è concepibile che la realpolitik diventi l’unico orizzonte. C’è il rischio di sembrare intelligenti solo se si pratica la realpolitik, lasciando sempre alle spalle il bene comune. La politica è certamente anche “interesse”, in senso nobile, e quindi conflitto di interessi. Tanto più in una società plurale. Ma tale “interesse” non può non essere subordinato alla costruzione del bene pratico dell’essere insieme.
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