Il religioso è stato ricordato anche attraverso la proiezione di Il mio nome è Thomas, film diretto e interpretato da Terence Hill che rappresenta un omaggio a Carretto e in particolare al suo libro di riflessioni Lettere dal deserto. Il film era già uscito nelle sale italiane lo scorso aprile.
Il motociclista Thomas (Hill) parte dall’Italia alla volta del deserto dell’Andalusia per ritrovare se stesso. Nonostante sia un solitario, si ritrova a viaggiare con Lucia (Veronica Bitto), una ragazza piena di energia ma anche a dir poco problematica: vive di espedienti e di piccoli furti e ha alle spalle un tentativo di suicidio. Sul traghetto per la Spagna, l’improbabile coppia stringerà amicizia, un legame fatto di frequenti litigi ma anche alimentato dalla solitudine che accomuna entrambi. Durante un precario soggiorno nel deserto, Thomas riuscirà a introdurre la riluttante Lucia all’opera di Carlo Carretto. Una scoperta provvidenziale, quella delle parole del religioso da parte della ragazza, che, malata gravemente di cuore, ora riuscirà ad accettare con maggiore serenità il proprio destino.
Hill torna alla macchina da presa a quasi dieci anni dal film per la televisione Doc West (2009), e torna al grande schermo addirittura a distanza di più di vent’anni, ovvero dai tempi di Potenza virtuale, firmato da un altro nome storico del cinema di genere italiano, Antonio Margheriti, che in quel 1997 aveva ormai da tempo imboccato la parabola discendente della sua carriera.
Ed è proprio con la lucida consapevolezza di essere un redivivo, che l’attore e regista sembra aver affrontato questa fatica di cui è anche cosceneggiatore, mentre produttore è suo figlio Jess.
Già dai primi fotogrammi, infatti, il film attinge a piene mani al passato cinematografico del protagonista, che oggi ormai coincide in gran parte con la memoria collettiva di generazioni di spettatori. Il titolo fa ovviamente riferimento a Il mio nome è Nessuno (Tonino Valerii, 1973), mentre la colonna sonora firmata niente meno che da Pino Donaggio fa dichiaratamente il verso a quella — composta da Franco Micalizzi — di Lo chiamavano Trinità (E.B. Clucher alias Enzo Barboni, 1970), utilizzata recentemente anche da Tarantino in Django unchained.
Potrebbero sembrare soltanto citazioni posticce, ma Hill intelligentemente porta alle estreme conseguenze il contesto postmoderno del film, con idee al limite del surrealismo. Thomas, infatti, non si limita alla obbligatoria scazzottata che si aspettano tutti i fan della coppia Spencer-Hill, ma si porta dietro addirittura una padella — altro leggendario strascico di Trinità — per colpire i suoi avversari. Ma soprattutto, nel deserto dell’Andalusia, troverà riparo in un set cinematografico, perché è proprio lì che venivano girati, fra gli anni sessanta e settanta, tantissimi western all’italiana. E non manca nemmeno la strizzata d’occhio all’amico Bud, a cui d’altronde il film è dedicato, con un motivetto americano anni venti che esce da uno stereo portatile. Quasi subliminale — e quindi ammirevolmente sobrio — riferimento al film Charleston (Marcello Fondato, 1977), di cui Spencer è l’eponimo protagonista.
Innanzi tutto, smorza le tentazioni melodrammatiche che potevano celarsi dietro una scelta di per sé facile come quella di una protagonista giovane e malata. Poi finisce per sanare una drammaturgia non proprio fluida nel rapporto fra i due personaggi, perché Thomas è dichiaratamente una maschera del cinema che fu, un’icona cinematografica che nella sua astrattezza rappresenta per il più tridimensionale personaggio femminile uno specchio dentro cui guardarsi. Infine, il contesto quasi teatrale della lunga parte centrale del film, supportato dalla presenza di due soli personaggi e dall’unità di luogo e azione, permette al regista di declinarne il registro in varie direzioni, anche in quella spirituale e religiosa, come già sottolinea un irreale cielo stellato da presepe.
E come viene sancito dalle pagine di Lettere dal deserto che Thomas legge a Lucia, relative alla Vergine Maria e alla sua giovinezza, che Carretto immagina fatta sicuramente anche di solitudine e di diffidenza da parte di chi la circondava. Hill realizza così un accostamento fra la Madonna e la propria protagonista, azzardato ma non lontano dallo spirito di Carretto, che invitava a vedere Maria nei suoi lati più umani per sentirla più vicina.
Quello di Hill è insomma un viaggio alla fine del cinema coraggioso e orgogliosamente fuori moda. Incurante dei propri limiti perché sicuro di arrivare, in un modo o nell’altro, al traguardo prefisso. Proprio come il suo protagonista.
di Emilio Ranzato per l’Osservatore Romano, 27/28 ottobre 2018
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