Esistono molti modi per comunicare la propria fede. Uno di questi, forse il più dirompente, è viverla come un valore normale: una dimensione quotidiana dell’esistenza, che non ha bisogno di proclami perché finisce fisiologicamente per forgiare il carattere e le scelte dell’uomo. Per questo, anche se il cattolicesimo di Carlo Conti non è mai stato sbandierato, trapela comunque, con forza, nello stile di vita e di lavoro di questo volto Rai.
Dietro alla “buona tv” che lo ha reso celebre, si nascondono infatti valori profondamente religiosi: concetti semplici ma radicati, intrisi di buon senso, che hanno ispirato ogni suo programma. Una nuova normalità, dunque, che nel tempo è diventata addirittura il marchio di fabbrica del conduttore.
Dunque la “tv buona maestra” non solo esiste, ma può essere anche lo specchio di una serie di valori cristiani?
«Come tutti i mezzi, il piccolo schermo può essere usato bene o male: tutto dipende dall’onestà e dall’amore con cui viene approcciato. Quanto alla mia fede, non so se posso definirmi un buon cristiano e, in fondo, non sta nemmeno a me dirlo. Tuttavia è chiaro che la mia formazione mi porta a fare delle scelte lavorative di un certo tipo. Ognuno di noi porta dentro di sé i valori che ha ricevuto come insegnamento: mia madre mi ha trasmesso la fede e insisteva molto sull’importanza dell’onestà e del rispetto verso il prossimo».
A proposito di scelte lavorative, perché nei suoi due Sanremo ha voluto dare voce a realtà come quella del padre con 16 figli?
«Per me Sanremo resta prima di tutto una vetrina musicale. Però mi piace, qua e là, prevedere delle persone comuni come ospiti: per esempio quest’anno abbiamo avuto l’atleta con “un cromosoma in più”, come ama definirsi Nicole Orlando, e il signore di 100 anni, mentre nel 2015 c’erano stati la cantante drag queen Conchita Wurst e poi la famiglia cattolica con 16 figli. Sono infatti convinto che la tv debba promuovere quel senso di rispetto che ogni tanto tendiamo a perdere: dobbiamo tornare a saper ascoltare le ragioni altrui. Per questo non ho gradito il brusio in sala mentre quel papà parlava della Provvidenza per spiegare la sua scelta di avere 16 figli. È stato irrispettoso quanto le critiche a Wurst».
Crede che oggi si tenda a confondere l’idea di tolleranza con l’adesione incondizionata alle idee dominanti del momento?
«Mi piace parlare, più che di tolleranza, di rispetto: un valore che, a sua volta, si fonda sull’ascolto e sul capire le diversità. Dopodiché ognuno è libero di pensarla come crede, ma l’ascolto è fondamentale».
Veniamo a lei. Dopo anni da scapolo incallito, nel 2012 si è sposato in chiesa con Francesca. Cosa l’ha spinta a compiere un passo così importante?
«Beh, con mia moglie condivido i valori cristiani ed entrambi desideravamo celebrare il sacramento del Matrimonio. La nostra non è solo un’unione terrena: per me la fede ha un significato reale, così come la promessa che abbiamo pronunciato all’altare. Mia moglie stessa è stata un dono. Per anni dentro di me ha albergato un’anima da scapolone incallito, alla Alberto Sordi. I miei stessi amici non avrebbero mai immaginato che un giorno avrei messo la testa a posto. Tra l’altro all’inizio proprio la mia inclinazione alla “singletudine” aveva minato il rapporto con Francesca. Salvo poi ritrovarci alcuni anni dopo».
Sa, si dice che se due persone sono fatte l’una per l’altra, Dio non permette che si perdano di vista.
«Per noi è andata esattamente così. Ci siamo ritrovati al momento giusto e il fatto che, a distanza di tempo, Francesca nutrisse ancora, nel profondo, un sentimento vivo come il mio, è stato un dono. Comunque c’è da dire che, nonostante le mie inclinazioni, ho sempre avuto il senso della famiglia. Nel mio periodo “albertosordiano”, quando qualcuno mi chiedeva se desiderassi in futuro un figlio, rispondevo sempre che prima di diventare padre dovevo mettere su una famiglia, ossia costruire un rapporto stabile con una donna».
Oggi lei è diventato anche padre: che significato dà alla paternità?
«È un altro dono immenso e non è un caso se il mio primogenito si chiama Matteo: il nome significa “dono di Dio” e rappresenta a pieno il sentimento che nutriamo io e mia moglie. Quanto alla paternità, è un ruolo che affronto con immensa gioia anche se per me è tutto da inventare: non ho riferimenti in famiglia, visto che mio padre è morto quando avevo 18 mesi».
È quindi cresciuto solo con sua madre?
«Sì. Mia madre era una donna fortissima, a cui devo molto di quello che sono. Ricordo che non vivevamo certo nell’oro: lei era rimasta vedova e doveva occuparsi, da sola, di me. Tuttavia mi ripeteva sempre di non guardare chi stava meglio di noi, ma di avere sempre un occhio di riguardo per chi versava in situazioni più difficili delle nostre. Aiutava sempre chi era in difficoltà».
La sua infanzia sembra essere stata ricca di sofferenze: non si è mai “arrabbiato” con Dio, nemmeno per via della morte di suo padre?
«No: se hai fede è proprio in questi momenti di dolore che ringrazi Dio e chiedi il suo conforto, trovando le motivazioni per andare avanti. Mia madre, per esempio, mi ripeteva che mio padre era in Cielo e che, da lassù, mi proteggeva. Mi consigliava anche di pregarlo, e non ha mai smesso di ricordarmi che le cose importanti non erano i soldi ma comportarsi bene con gli altri, la salute, la felicità… Così, a mia volta, quando nel 2002 mia madre morì ho ringraziato Dio perché mi ha concesso di averla a fianco per 40 anni della mia vita. Non le nascondo che il dolore del distacco è stato grande, ma mi sentivo comunque grato».
Ha mai avuto occasione di incontrare papa Francesco?
«L’ho incontrato nel 2013, proprio agli inizi del suo pontificato. Con me, c’era anche mia moglie: era incinta e lui ha benedetto il nascituro. È stato un momento molto toccante. Devo dire che questo Papa mi ha folgorato fin dal primo momento, a cominciare dalla scelta di chiamarsi Francesco. Mi ha anche fatto molto riflettere l’avvicendamento stesso tra i due Papi: Ratzinger e Bergoglio. Emerge tutta la grandezza di papa Benedetto, la potenza del suo gesto, e questo fa capire come lo Spirito Santo opera nella Chiesa. Purtroppo si tende spesso a pensare alla Chiesa alla stregua di una rete tv o di una squadra di calcio. Invece, se credi, capisci che è tutta un’altra cosa: ben poco è dettato dalla scelta degli uomini e lo Spirito agisce potentemente».
I PROGETTI
A SETTEMBRE LA RIMPATRIATA CON PANARIELLO E PIERACCIONI
Classe 1961, Carlo Conti è figlio della scuola di “toscani doc” composta da Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Proprio con loro due, negli anni Ottanta, fonda il trio Fratelli d’Italia, spopolando in tutta la Regione. In quegli anni alterna radio, tv e teatro. In Rai mette radici verso gli anni Novanta ma è nell’ultimo decennio che spopola conducendo alcuni programmi come il quiz L’eredità, il vip talent Tale e quale show, il varietà I migliori anni. La consacrazione arriva con la (doppia) conduzione del festival di Sanremo, nel 2015 e nel 2016. Nel 2012 si sposa con la costumista Francesca Vaccaro: due anni dopo diventa papà del piccolo Matteo. Conti, Pieraccioni e Panariello torneranno insieme per uno spettacolo come ai vecchi tempi il prossimo 5 settembre all’Arena di Verona.
Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it/Francesca D’Angelo)