Infine Carol ha affidato al papa argentino il suo popolo: “Io e i miei fratelli siriani presenti qui possiamo offrirle solo ferite profonde e pesanti eredità di dolore. Siamo anche testimoni delle sofferenze dei nostri fratelli cristiani in Siria. Veniamo da città come Homs e Kamisly, abbiamo visto le nostre chiese distrutte. La guerra ha negato a tutti noi persino la possibilità di pregare”. Ma nonostante tutto, il desiderio di riscatto e la speranza rimangono vive in Carol: “I siriani in Europa sentono grande la responsabilità di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società. Vogliamo offrire il nostro aiuto, il nostro bagaglio di competenze e conoscenze, la nostra cultura nella costruzione di società più giuste e accoglienti nei confronti di chi come noi è in fuga da guerre e persecuzioni. Noi adulti possiamo sopportare ancora altro dolore, se questo serve a garantire un futuro di pace ai nostri figli. Chiediamo per loro la possibilità di andare a scuola e crescere in contesti di pace. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale faccia in modo che il popolo siriano smetta di soffrire per una guerra che non vuole e non capisce”. “Ai nostri figli viene di fatto impedito di andare a scuola. Oggi in Siria mandare un bambino in un’aula a imparare vuol dire accettare il rischio di non vederlo tornare vivo. Scappiamo dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dal nostro passato perché non abbiamo alternativa”, ha denunciato ancora Carol. Eppure la fuga verso l’Europa “che sognavamo accogliente e aperta” non si rivela secondo le aspettative: “I nostri diritti umani e la nostra dignità troppo spesso vengono calpestati dall’indifferenza e dalla superficialità con cui ci capita di essere trattati. Siamo qui in Italia, molti di noi si trovano in altri Paesi europei. Siamo scappati dall’orrore ma non ci sentiamo ancora in salvo”.
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