Una visione a senso unico, che ignora le contraddizioni dell’impianto accusatorio. È quella dei giudici dell’Alta Core di Lahore che hanno confermato la colpevolezza di Asia Bibi il 16 ottobre scorso. Ma Asia Bibi, madre cristiana condannata a morte per blasfemia, ha scontato in appello anche le lacune del processo di primo grado. Lo spiegano le motivazioni della sentenza, depositate dall’Alta Corte di Lahore e consultate da Avvenire.
Il documento riassume l’andamento del processo, giungendo alla nota conclusione: la pena capitale per la donna, in carcere da oltre cinque anni, è confermata.
Secondo i magistrati di Lahore, la difesa non è riuscita a smontare le accuse che inchiodano la contadina del Punjab. I giudici hanno ritenuto «credibili» due testi-chiave: le donne musulmane con cui Asia ha avuto l’alterco che, quel lontano 14 giugno del 2009, è finito con l’accusa di blasfemia. Asma Bibi e Mafia Bibi non vollero bere dalla fonte «inquinata» dalla loro compagna e dissero di aver sentito Asia offendere Maometto. Le due, ecco la prima lacuna, non sono state controinterrogate dalla difesa, in primo grado. «Se non si contesta l’affermazione di un teste, ciò significa che se ne accettano le dichiarazioni», notano i magistrati.
L’appiglio fornito alla Corte è bello e servito. A nulla è valso spiegare che le due abbiano voluto deliberatamente punire una cristiana che aveva osato controbattere. A nulla è valso ricordare che i cristiani sono considerati “inferiori”, e anche nelle aree rurali mettere in discussione la presunta superiorità dei musulmani genera vendette come questa. Secondo i magistrati, «il pregiudizio di inimicizia non è provato». Alla malora decenni di studi e ricerche sociologiche sui difficili rapporti tra maggioranza musulmana e minoranze cristiane e indù, segnate dalla discriminazione, ritenute “impure”, come proprio l’episodio di Asia testimonia.
E poi: una contadina analfabeta come Asia come avrebbe potuto citare episodi della vita del Profeta, e passi del Corano, dato che trattasi di una illetterata? Nessun cenno a questa contraddizione. Né ha un peso il fatto che Asia abbia sempre ribadito, dal primo minuto, la sua innocenza e abbia rifiutato la conversione all’islam, offertale come salvacondotto. Non dimostra, questo passaggio, un pregiudizio religioso?
«Irrilevante», infine, il ritardo nella denuncia, presentata sei giorni dopo l’episodio contestato. Per gli avvocati di Asia, comprovava la macchinazione e sollevava almeno un ragionevole dubbio. La Corte l’ha ignorato. Su queste motivazioni lavorerà un nuovo pool di avvocati, che presenteranno il ricorso alla Corte Suprema, l’ultima spiaggia per Asia.
di Paolo Affatato per Avvenire