Sancta Sedes

Celebrazione della Passione in Vaticano: Quella croce cosmica sospesa sul mondo

Abbiamo ascoltato il racconto della Passione di Cristo. Si tratta in sostanza del resoconto di una morte violenta. Notizie di morti, e di morti violente, non mancano quasi mai dai notiziari serali. Anche in questi ultimi giorni ne abbiamo ascoltate, come quella dei 38 cristiani copti uccisi in Egitto la domenica delle Palme. Queste notizie si susseguono con tale rapidità da farci dimenticare ogni sera quelle del giorno prima. Perché allora, dopo 2000 anni, il mondo ricorda ancora, come fosse avvenuta ieri, la morte di Cristo? È che questa morte ha cambiato per sempre il volto della morte; essa ha dato un senso nuovo alla morte di ogni essere umano. Su di essa riflettiamo qualche istante.

«Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Giovanni 19, 33-34). All’inizio del suo ministero, a chi gli domandava con quale autorità egli cacciasse i mercanti dal tempio, Gesù rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». «Egli parlava del tempio del suo corpo» (2, 19. 21), aveva commentato Giovanni in quella occasione, ed ecco che ora lo stesso evangelista ci attesta che dal fianco di questo tempio «distrutto» sgorgano acqua e sangue. È un’allusione evidente alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa prima un ruscello, poi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cfr. 47, 1 ss.).

Ma penetriamo dentro la sorgente di questo «fiume di acqua viva» (Giovanni 7, 38), nel cuore trafitto di Cristo. Nell’Apocalisse lo stesso discepolo che Gesù amava scrive: «Poi vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato» (5, 6). Immolato, ma in piedi, cioè trafitto, ma risorto e vivo.




Esiste ormai, dentro la Trinità e dentro il mondo, un cuore umano che pulsa, non solo metaforicamente, ma realmente. Se Cristo, infatti, è risorto da morte, anche il suo cuore è risorto da morte; esso vive, come tutto il resto del suo corpo, in una dimensione diversa da prima, reale, anche se mistica. Se l’Agnello vive in cielo «immolato, ma ritto», anche il suo cuore condivide lo stesso stato; è un cuore trafitto ma vivente; eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente.

È stata creata un’espressione per descrivere il colmo della malvagità che può ammassarsi in seno all’umanità: «cuore di tenebra». Dopo il sacrificio di Cristo, più profondo del cuore di tenebra, palpita nel mondo un cuore di luce. Cristo, infatti, salendo al cielo, non ha abbandonato la terra, come, incarnandosi, non aveva abbandonato la Trinità.

«Ora si compie il disegno del Padre — dice un’antifona della Liturgia delle ore —, fare di Cristo il cuore del mondo». Questo spiega l’irriducibile ottimismo cristiano che ha fatto esclamare a una mistica medievale: «Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene» (Giuliana di Norwich).




I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, nei loro documenti ufficiali e in altre occasioni. In esso è rappresentato il globo terrestre, sormontato da una croce, con intorno la scritta: Stat crux dum volvitur orbis: Sta immobile la croce, tra gli sconvolgimenti del mondo.

Che cosa rappresenta la croce, per essere questo punto fermo, questo albero maestro tra l’ondeggiare del mondo? Essa è il “no” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto quello che chiamiamo “il male”; ed è contemporaneamente il “sì” altrettanto irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” al peccato, “sì” al peccatore. È quello che Gesù ha praticato in tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte.

La ragione di questa distinzione è chiara: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti; il peccato no; esso è una realtà spuria, aggiunta, frutto delle proprie passioni e della «invidia del demonio» (Sapienza 2, 24). È la stessa ragione per cui il Verbo, incarnandosi, ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso, è la dimostrazione vivente di tutto ciò. Nessuno deve disperare; nessuno deve dire, come Caino: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono» (Genesi 4, 13).




La croce non «sta» dunque contro il mondo, ma per il mondo: per dare un senso a tutta la sofferenza che c’è stata, c’è e ci sarà nella storia umana. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo — dice Gesù a Nicodemo —, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3, 17). La croce è la proclamazione vivente che la vittoria finale non è di chi trionfa sugli altri, ma di chi trionfa su se stesso; non di chi fa soffrire, ma di chi soffre.

Dum volvitur orbis, mentre il mondo compie le sue evoluzioni. La storia umana conosce molti passaggi da un’era all’altra: si parla dell’età della pietra, del bronzo, del ferro, dell’età imperiale, dell’era atomica, dell’era elettronica. Ma oggi c’è qualcosa di nuovo. L’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione si deve affiancare quella di frantumazione. Viviamo, è stato scritto, in una società «liquida»; non ci sono più punti fermi, valori indiscussi, nessuno scoglio nel mare, a cui aggrapparci, o contro cui magari sbattere. Tutto è fluttuante.

Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: «Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?» (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).

È stato detto che «uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi», ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che «dove nasce Dio, muore l’uomo» (Jean-Paul Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo.

Un pittore surrealista della seconda metà del secolo scorso (Salvador Dalí) ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo.

Questa immagine tragica (c’è anche, sullo sfondo, una nube che potrebbe alludere alla nube atomica), contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra! C’è speranza, perché sopra di essa «sta la croce di Cristo». È quello che la liturgia del Venerdì Santo ci fa ripetere ogni anno con le parole del poeta Venanzio Fortunato: O crux, ave spes unica, Salve, o croce, unica speranza del mondo.




Sì, Dio è morto, è morto nel Figlio suo Cristo Gesù; ma non è rimasto nella tomba, è risorto. «Voi l’avete crocifisso — grida Pietro alla folla il giorno di Pentecoste —, ma Dio l’ha risuscitato!» (Atti 2, 23-24). Egli è colui che «era morto, ma ora vive nei secoli» (Apocalisse 1, 18). La croce non «sta immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo» come ricordo di un evento passato, o un puro simbolo; vi sta come una realtà in atto, viva e operante.

Non dobbiamo fermarci, come i sociologi, all’analisi della società in cui viviamo. Cristo non è venuto a spiegare le cose, ma a cambiare le persone. Il cuore di tenebra non è soltanto quello di qualche malvagio nascosto in fondo alla giungla, e neppure quello della società che lo ha prodotto. In misura diversa è dentro ognuno di noi.

La Bibbia lo chiama il cuore di pietra: «Strapperò da loro il cuore di pietra — dice Dio nel profeta Ezechiele — e darò loro un cuore di carne» (36, 26). Cuore di pietra è il cuore chiuso alla volontà di Dio e alla sofferenza dei fratelli, il cuore di chi accumula somme sconfinate di denaro e resta indifferente alla disperazione di chi non ha un bicchiere d’acqua da dare al proprio figlio; è anche il cuore di chi si lascia completamente dominare dalla passione impura, pronto per essa a uccidere, o a condurre una doppia vita. Per non restare con lo sguardo sempre rivolto all’esterno, agli altri, diciamo più concretamente: è il nostro cuore di ministri di Dio e di cristiani praticanti se viviamo ancora fondamentalmente «per noi stessi» e non «per il Signore».

È scritto che al momento della morte di Cristo «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono» (Matteo 27, 51s.). Di questi segni si dà, di solito, una spiegazione apocalittica, come di un linguaggio simbolico necessario per descrivere l’evento escatologico. Ma essi hanno anche un significato parenetico: indicano quello che deve avvenire nel cuore di chi legge e medita la Passione di Cristo. In una liturgia come la presente, san Leone Magno diceva ai fedeli: «Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro» (Sermo 66, 3; pl 54, 366).

Il cuore di carne, promesso da Dio nei profeti, è ormai presente nel mondo: è il cuore di Cristo trafitto sulla croce, quello che veneriamo come «il Sacro cuore». Nel ricevere l’Eucaristia, crediamo fermamente che quel cuore viene a battere anche dentro di noi. Guardando fra poco la croce diciamo dal profondo del cuore, come il pubblicano nel tempio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!», e anche noi, come lui, torneremo a casa «giustificati» (Luca 18, 13-14) .




di Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia
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Fonte: L’Osservatore Romano, edizione 4- Aprile 2017

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