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Centrafrica, Bangui: un convento accoglie seimila cristiani

“Cronaca di un convento carmelitano diventato un campo profughi”. È questo il titolo che padre Federico Trinchero, sacerdote carmelitano in Centrafrica, ha dato al breve diario che raccoglie le email con cui ha raccontato ai suoi amici come la guerra abbia spinto fino a 10 mila cristiani a rifugiarsi nel Carmel, il suo convento nella capitale Bangui.
«Il nostro convento è una casa di formazione, non una parrocchia o una missione in senso stretto», racconta padre Federico a tempi.it. «Noi ci occupiamo della formazione dei giovani centrafricani che vogliono diventare frati o sacerdoti. Abbiamo fondato il Carmel nel 2006 e io ora ne sono il priore. Qui facciamo una vita piuttosto normale anche se il 5 dicembre dell’anno scorso è stata sconvolta».

GUERRA CIVILE SANGUINOSA. La data a cui fa riferimento padre Federico è uno dei momenti più bui della guerra che dal 24 marzo 2013 sconvolge il paese. Dopo mesi di violenze perpetrate contro i cristiani dai ribelli Seleka, mercenari islamici del Ciad e del Sudan che sotto la guida di Djotodia hanno deposto con un colpo di Stato il presidente Bozizé, le milizie anti-balaka (“antidoto”) hanno cominciato a reagire e a vendicarsi sui musulmani con altrettanta violenza e crudeltà. A inizio dicembre hanno perso la vita a Bangui negli scontri centinaia di persone. «La gente ha cominciato a scappare: da noi sono arrivati 600 cristiani. Il giorno dopo erano già 2.500. Il 20 dicembre 10 mila. Oggi sono circa seimila, ma è difficile calcolare il numero esatto».

Il Carmel si trova alla periferia di Bangui, ad appena quattro chilometri dalla chiesa Nostra Signora di Fatima, dove lo scorso 28 maggio hanno perso la vita decine di cristiani a causa di un attacco da parte delle milizie Seleka. La chiesa, così come il convento, è alle porte del quartiere Pk5, l’unico dove sembra siano rimaste ancora delle milizie Seleka, in parte cacciate dalle forze internazionali intervenute per ristabilire la pace nel paese.

DA CONVENTO A CAMPO PROFUGHI. L’arrivo di migliaia di persone in fuga dalla guerra ha costretto padre Federico e i suoi confratelli a trasformare il convento in un campo profughi: «Noi siamo in 12: tre sacerdoti e nove frati. Quando sono arrivate tutte queste persone, abbiamo provato a dare loro da mangiare, soprattutto ai bambini. Ma non era facile: chi ha tante pentole e il materiale per farlo? Se poi vuoi cucinare per duemila persone, devi cominciare al mattino per la sera». In poco tempo, i carmelitani si sono accorti che non potevano prendersi cura di tutti. Per fortuna, «dopo i primi giorni, in cui si sparava troppo, sono arrivati a darci una mano i volontari della Croce rossa. Da dicembre a oggi, ogni 15 giorni vengono e scaricano quintali di riso, fagioli, olio e sale».

NASCE UN OSPEDALE. Oltre al cibo, c’è il problema dell’igiene: «Siamo riusciti ad impedire il diffondersi di epidemie come il colera – spiega padre Federico con un senso di sollievo -. Le organizzazioni ci hanno aiutato a predisporre docce e gabinetti. Poi ci hanno insegnato a distribuire gli aiuti a così tante persone: ora il convento è diviso in settori, con i suoi responsabili, che si occupano della distribuzione. Abbiamo anche aperto un piccolo ospedale dove forniamo le medicine».

IL PRIMO PARTO IN CHIESA. Padre Federico, per rispondere al bisogno dei rifugiati, ha imparato a fare proprio di tutto: «Molte mamme hanno partorito qui da noi. La prima in chiesa, le altre in refettorio». Sì, perché nella situazione di emergenza in cui si sono venuti a trovare, anche la chiesa è stata “sfruttata”. Scrive in una lettera ai suoi amici: «In questi giorni non riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. La nostra chiesa è ormai occupata da trecento bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I loro strilli e il loro pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla nostra salmodia».

LA MESSA ALL’APERTO. I posti letto vengono ricavati un po’ dovunque: «All’inizio dormivano dove potevano, abbiamo aperto tutti i garage e le sale che si potevano utilizzare. Solo le nostre stanze abbiamo tenuto. Per tre mesi la gente ha dormito anche in chiesa e per non farli spostare abbiamo detta Messa all’aperto ogni mattina. Per fortuna da gennaio varie organizzazioni ci hanno aiutato costruendo grosse tende con sostegni in legno e ricoperte da teloni di plastica».

«SERVIRE È UNA GRAZIA». Quando si chiede a padre Federico, in Centrafrica dal 2009, come lui e i suoi confratelli stiano vivendo questi mesi di emergenza, si riceve una risposta sconvolgente: «Per noi poter servire così queste persone è una Grazia, un’esperienza unica. Siamo molto stanchi ma contenti perché abbiamo sofferto con questo popolo e siamo rimasti con loro. Nessuno ha pensato di andare via o mandare via i profughi».

Continua: «È bello vivere questa esperienza come comunità: noi non siamo eroi, abbiamo fatto tutto insieme, ci siamo dati da fare. Io sono responsabile della formazione dei novizi e posso dire che questa è stata un’esperienza umanamente e spiritualmente formativa per noi tutti. Non mi sono per nulla pentito di averli accolti, mi hanno insegnato tanto: è bello, è una grazia del Signore». Piccoli miracoli in mezzo al male della guerra. Di Leone Grotti.

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