Dall’interrogativo di un lettore del “Corriere della sera” sull’importanza di certi “vissuti” come credenziali professionali alla testimonianza del capo del personale di una multinazionale – «Gentile Severgnini, ho avuto l’occasione di ascoltare una sua intervista televisiva. Mi hanno colpito alcune sue parole riguardo il lavoro dei giovani. Lei invitava a non vergognarsi di scrivere sul proprio Cv le attività di volontariato. Anzi, invitava calorosamente a farlo. Purtroppo, io che offro con gioia da anni un po’ del mio tempo per i ragazzi dai 5 ai 14 anni nel mio oratorio, mi sento rimproverare questo servizio nei miei colloqui di lavoro. Più volte mi viene sollecitato e consigliato di togliere quella parte, ma io continuo a pensare che sia giusto raccontare ciò a cui si crede»: così scrive Roberto Sacchiero al blog di Beppe Severgnini (italians.corriere.it)
«Per carità, Roberto, continui a inserire gli anni all’oratorio nel suo curriculum! Se chi lo leggerà è una persona intelligente, lei guadagnerà punti. Se ne perderà, vuol dire che in quell’ufficio del personale ci sono persone poco intelligenti. E lei vuole davvero andarci, in un posto così?», risponde il giornalista del Corriere della sera. «Non sto santificando il volontariato, lo scoutismo, il lavoro con i ragazzi negli oratori o nelle attività sportive (dove la fatica è gestire genitori nevrotici e frustrati). Ritengo però che queste siano prove di generosità, anzi di gratuità: ed è quella che manca, spesso, nella cultura aziendale italiana. Peccato. Perché la gratuità è lungimirante – tutto torna indietro moltiplicato – ed è gratificante. Perché essere buoni, quasi sempre, porta felicità. La felicità che tutti inseguiamo freneticamente, spesso spendendo più del dovuto».
Abbiamo chiesto un’opinione in merito al capo del personale di una multinazionale.
di Fabio CIARAPICA
Direttore Divisione Risorse umane Praxi
Noi non siamo il nostro curriculum (Cv). Ma è ciò che ci rappresenta, è il nostro abito di presentazione, è il nostro stile abituale. E spesso ci cambiamo d’abito, a seconda delle situazioni, pur senza perdere la nostra identità.
Il Cv è una comunicazione, tra l’altro scritta, sintetica, razionale, informativa e poco “dinamica” e come tale sottoposta alle elementari regole della stessa, con relativi effetti boomerang e interpretativi. Dobbiamo quindi immaginare che il nostro Cv è uno solo e veritiero, ma può essere presentato anche con stili differenti: essenzialmente per presentare “cosa siamo” oppure “chi siamo” ovvero le nostre competenze o la nostra personalità. A volte più le une, a volte più le altre, a volte ambedue…
Occorre quindi scriverlo a seconda dei contesti a cui si invia, come avviene per un cambio d’abito o scarpe a seconda dell’ambiente o del terreno che ci aspetta.
A livello istituzionale o manageriale l’interlocutore/lettore, magari una multinazionale, è maggiormente interessato a conoscere le conoscenze e le tecnicalità: le altre informazioni spesso non interessano o possono portare a errate interpretazioni o fraintendimenti.
Invece una società piccola e di servizi composta da un gruppo affiatato oppure un imprenditore locale vicino al territorio può essere proprio interessato a leggere ”tra le righe” elementi predittivi dei comportamenti organizzativi del futuro collega o collaboratore.
Certo il curriculum (più o meno “professionale” o vitae) deve rappresentare noi stessi. Non amo icurricula in formato standard, tutti uguali, che solo apparentemente contribuiscono a una migliore lettura. Personalmente appartengo alla categoria dei lettori (il termine tecnico è bruttino: screening, o scrematura, perché più che presentarci serve a far passare una prima fase di selezione fredda, di mera comparazione con altre centinaia di Cv) che pur in un’ottica professionale e non psicologica desiderano intravvedere la personalità di chi scrive, sebbene il portato valoriale sottinteso a determinate esperienze non dovrebbe creare un effetto alone, né positivo, né negativo, sulla valutazione del Cv professionale propriamente detto.
Infatti è abbastanza passata di moda la declinazione degli hobby e interessi personali a fine curriculum che miravano a rappresentare spesso un falso sé (golf, vela, equitazione…) come pseudo condimento di ambizioni manageriali.
Purtroppo non tutti i lettori sono in grado di apprezzare un portato valoriale indipendentemente dal fatto che si esprimi un valore vicino ai propri interessi o meno, che sia una capacità sportiva oppure un volontariato, un “banale” hobby o una solidarietà sociale…
Importante è decidere cosa vogliamo rappresentare e a chi; se siamo assolutamente certi che l’espressione di una delle tante nostre sfaccettature (conoscenze, capacità, competenze, comportamenti, personalità…) sia necessaria e opportuna per quel contesto, quell’interlocutore, quel lavoro. E se siamo disposti ad anteporla al “giudizio” (parola molto impegnativa, ma meno eufemistica di “valutazione”) del lettore.
Ovviamente un giovane, per esempio, con un curriculum professionale ancora fisiologicamente carente di esperienze, oppure il titolare di una professionalità “semplice” o di una esperienza non diversificata, come può sia presentarsi adeguatamente, sia evidenziarsi rispetto alla “concorrenza” se non parlando anche delle proprie attività “extraprofessionali” intese in senso lato?
Ecco che un selezionatore non può non accettare e anzi dovrebbe valorizzare tali espressioni comunicative. E paradossalmente lo dovrebbe fare asetticamente, indipendentemente dal loro contenuto (o addirittura ideologia) specifico (per macrotematiche: per esempio Emergency oppure oratorio, ambulanze oppure centri sociali; rispetto a passioni sportive; rispetto a giardinaggio obricolage...) bensì per gli elementi tecnico-predittivi che rappresentano rispetto alla capacità di lavorare in team piuttosto che di essere un individual contributor, di assumersi responsabilità oppure di condividerle, di relazionarsi con l’esterno oppure con sistemi e procedure interne… Ovvero tutta una serie di informazioni relative ai comportamenti organizzativi che potrà o dovrà assumere all’interno del contesto lavorativo di riferimento, per valutarne la sovrapponibilità (“tecnica”) o meno.
Cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Wislawa Szymborska (Premio Nobel per la Letteratura 1996)
Fonte: IncrociNews (Diocesi di Milano)