Esce proprio oggi, 20 gennaio, l’ultimo libro di Benedetto XVI che egli ha voluto fosse pubblicato dopo la sua morte. Può essere considerato un dono per credenti e per inquieti ricercatori della verità da parte di un pastore teologo che ha iniziato la sua missione immediatamente negli anni dopo il Concilio Vaticano II pubblicando “Introduzione al cristianesimo”, un volume indispensabile a mio avviso per inoltrarsi in tutto l’insegnamento di Benedetto XVI che non pochi considerano già Dottore della Chiesa. Cuore del libro, che ora ci lascia come testamento spirituale, è la misericordia di Dio che nasce da una passione d’amore verso ogni creatura.
Di quanto lui scrive sulla misericordia trovate piccola traccia anche in queste mie considerazioni che vogliono esser un omaggio a un Papa capace di spiegare alti concetti di teologia in modo profondo che sembrano già preghiera e invitano alla preghiera.
1 Non dev’essere pianta la morte.
Negli anni difficili del covid 19 a dominare è stata la paura di ammalarsi e di morire e i presidi sanitari (mascherine, misure igieniche, ecc.) hanno invaso gli spazi sacri della nostra intimità seminando nell’animo una diffidenza l’uno dell’altro considerato e spesso temuto come possibile untore da cui difendersi con il distanziamento sociale. In questi stessi anni il papa emerito si preparava a morire con la pace nel cuore. Perché temere la morte? Benedetto XVI aveva scritto nell’enciclica “Spe salvi”, pubblicata il 30 novembre del 2007: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”. E’ il Padre della Chiesa Ambrogio a esprimere, con parole rischiaranti, il senso dell’inveramento di una vita autenticamente cristiana, vissuta secondo la fede che è sostanza della speranza.”(cf. n. 10 ) Mi piace iniziare con queste sue parole una riflessione sull’eredità spirituale che questo pontefice ci lascia. La sua morte è invito alla speranza proprio perché la speranza, di cui è sostanza la fede, é il messaggio più incoraggiante che da lui possiamo raccogliere. Papa Francesco, succedutogli il 13 marzo del 2013, anche di recente ha affermato che Benedetto è un santo. Non sono convinto che il desiderio “santo subito” gridato dalla folla in piazza San Pietro il giorno del suo funerale il 5 gennaio 2023 possa essere rapidamente esaudito, ma una cosa è certa: per tanta gente, me compreso, Benedetto, ancor prima di morire, era già un esempio di santità per l’umiltà, la mitezza, la libertà interiore unita all’indomito coraggio che lo ha reso tenace testimone del Vangelo, mosso dall’amore per la verità che, come spesso ha ripetuto, è Gesù Cristo. Così l’ho conosciuto negli anni del mio servizio in Vaticano e a lui sono grato per gli insegnamenti ricevuti, mentre ritengo un dono immeritato da parte mia l’avermi voluto nominare vescovo nel novembre del 2009.
Eletto papa il 19 aprile 2005, ha esercitato il suo ministero con franchezza e solida fede, anche se fu spesso incompreso e lasciato solo, attaccato e vilipeso, non raramente persino umiliato e beffeggiato, definito “panzekardinal” e poi “pastore tedesco”, “rottweiler”, “vecchio goffo e ridicolo”. Per aver un’idea del suo calvario basta citare a mo’ di esempi, i volantini con la scritta: “pastore tedesco lasciaci in pacs”, che alludevano alle coppie di fatto e omosessuali, lanciati su di lui dalla redazione di un giornale di estrema sinistra durante il suo pellegrinaggio l’8 dicembre 2006 a Piazza di Spagna per venerare l’Immacolata Concezione. Nel gennaio 2007 l’università romana della Sapienza gli chiuse le porte; nel 2009 durante il viaggio in Africa notevole parte dell’opinione pubblica mondiale si scatenò contro di lui quando disse che non si può risolvere il problema dell’Aids solo con i soldi, che sono necessari ma non aiutano se non c’è l’anima che sa applicarli, e neppure con la distribuzione di preservativi perché al contrario aumentano il problema. E che dire del capitolo doloroso dello Ior in Vaticano e di Vatileaks negli anni 2012-2013, di cui ancor oggi si parla? A preoccuparlo maggiormente era però la situazione all’interno del mondo ecclesiale, che già il giorno di Natale del 1969, l’allora prof Ratzinger, al termine di un ciclo di cinque lezioni radiofoniche, aveva profeticamente intravisto, parlando del futuro di una “Chiesa della fede” con “un piccolo gregge di credenti”. “Avremo presto, – egli diceva – preti ridotti al ruolo di assistenti sociali e il messaggio di fede ridotto a visione politica. Tutto sembrerà perduto, ma al momento opportuno, proprio nella fase più drammatica della crisi, la Chiesa rinascerà. Sarà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa. Perché non sarà più la Chiesa di chi cerca di piacere al mondo, ma la Chiesa dei fedeli a Dio e alla sua legge eterna. La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, passato attraverso un processo di purificazione. Perché è così che opera Dio. Contro il male, resiste un piccolo gregge”.
3.La mite forza della verità
Nel suo libro “Introduzione al cristianesimo”, per me fondamentale se si vuole conoscere il pensiero del teologo Ratzinger, egli ricorda che ci si sente d’un tratto più soli, a causa del volgere impetuoso dei tempi quando il “buio baratro del nulla” sembra costituire l’unica visuale concessa all’uomo presente, il quale profetizzando e poi realizzando la “morte di Dio” (Nietzsche) ha de facto ucciso sé stesso. Non parte forse da questa consapevolezza il coraggio della speranza di questo pastore-teologo che, forte d’una ben solida formazione biblica, filosofica, teologica e culturale, non teme di confrontarsi con le problematiche dell’odierna umanità? Benedetto, “Padre della Chiesa” di questi secoli, promuove in ogni modo il dialogo tra fede e ragione diventando persino capace di trasformare in opportunità di dialogo momenti nei quali questo dialogo venne mistificato o addirittura rifiutato. Si pensi al grande malinteso sul discorso tenuto a Regensburg (Ratisbona) il 12 settembre 2006, incentrato sulla tematica del rapporto tra ragione e ricerca teologica, come pure al già citato rifiuto dell’università Sapienza di Roma l’anno seguente. Il discorso che aveva preparato fu consegnato comunque al rettore della Sapienza che l’aveva invitato, e sarebbe utile rileggerlo perché conserva un’evidente attualità ed è un documento che aiuta a capire il valore e la necessità del dialogo tra fede e ragione. Tra coloro che alla Sapienza di Roma lo contestarono, il matematico Piergiorgio Odifreddi in seguito gli divenne amico a riprova della saggezza d’un Papa che per evitare conflitti rinuncia, ma mostra nel contempo un’insolita capacità di dialogare anche con coloro che, per preconcetti ideologici come all’università della Sapienza a Roma, arrivano a rifiutargli la possibilità di parlare. La mancata visita, in effetti, è diventata per papa Ratzinger un momento di “alto dialogo” che permette di capire il profilo di questo papa pastore- teologo che “non vuole imporsi ma proporsi”. E’ la mite forza della verità! Quanti sono coloro che cercano oggi di veicolare questo suo stile in ogni forma di dialogo nella Chiesa e nella società?
Nasce naturale una domanda: “Come ha fatto questo mite pontefice a conservare la calma e la serenità davanti alle tempeste non solo mediatiche che hanno interessato la sua persona negli anni del pontificato? E per quale ragione si è dimesso inaugurando nella storia la figura del papa emerito?”. Grande in effetti fu lo smarrimento all’annuncio delle sue inimmaginabili dimissioni davanti a cardinali e vescovi al termine del concistoro ordinario l’11 febbraio del 2013 ed emozionante, alcuni giorni dopo, seguire in tv la sua trasferta in elicottero dal Vaticano a Castel Gandolfo. Da quel momento quest’uomo, che nella prima celebrazione pubblica da pontefice si era definito “un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore” e aveva chiesto di pregare affinché “io non fugga, per paura, davanti ai lupi”, ha continuato la stessa missione in maniera diversa seppellendosi vivo nel monastero del silenzio e della preghiera. Aveva compiuto il gesto coraggioso delle dimissioni sorprendendo tutti e alcuni lo ritennero come uno “scendere dalla croce” a differenza di Giovanni Paolo II che invece c’era rimasto fino all’ultimo fiato. Ma è stato veramente un comodo scappare o piuttosto un eroico entrare nel “misterioso spessore della croce”? Mi viene in mente ciò che scrive il grande mistico san Giovanni della Croce: “chi desidera veramente la sapienza divina, in primo luogo brama di entrare veramente nello spessore della croce!” (Cf. Cantico spirituale, 36-37). E Benedetto, che ha consacrato tutto sé stesso a contemplare la “sapienza divina” vi è entrato testa, braccia e cuore. Tra le mura silenziose del monastero situato al centro dei giardini vaticani, si è dato alla preghiera per sostenere il suo successore nella faticosa guida della Chiesa. Ha proseguito la sua paziente immersione nella ricerca teologica per lasciare alla Chiesa strumenti culturali, scientifici. teologici, biblici e spirituali utili per interpretare i segni dei tempi in un periodo storico dove sembrano dominare la sfiducia e la paura, lo smarrimento e la delusione, la confusione e l’ansia di un faticoso rinnovamento. Sì, siamo in un’epoca in piena evoluzione dal futuro incerto, ma illuminato dalla speranza perché, come egli ci ricorda, il tempo non è Dio, Dio è eterno, mentre il tempo è un idolo quando diventa oggetto di venerazione e, ancora, il cielo non appartiene alla geografia dello spazio ma alla geografia del cuore. (cf. J. Ratzinger, “Il Dio di Gesù Cristo”, Meditazioni sul Dio Uno Trino).
5 Meta ultima di ogni nostro cammino: il Cielo!
Mi sento piccolo e limitato davanti ad una personalità di così alto livello teologico, ma non credo di essere smentito affermando che nei quasi dieci anni di “emerito silenzio” ci ha insegnato ciò che oggi è essenziale, assolutamente prioritario e indispensabile: immergersi e restare nella presenza di Dio Trinità Amore. Nei suoi testi e discorsi aveva più volte ripetuto che Dio nulla può se gli uomini non lo cercano, perché il Padre ha tutto donato, ha dato se stesso: il suo Figlio, Gesù di Nazareth. Ed è dunque al Dio di Gesù di Nazareth che occorre ridare il posto che gli compete al di sopra di tutto e di tutti, proclamandone con coerenza la costante incidenza nella nostra vita, se si vuole aiutare l’umanità stanca e smarrita a recuperare gioia e vigore spirituale. Papa Francesco ci ricorda spesso che “noi dobbiamo avviare processi più che occupare spazi” per offrire come Chiesa un servizio e un contributo all’odierna società che attraversa uno snodo delicato e decisivo riguardo al suo futuro. C’invita a un impegno fattivo, coraggioso e audace che tutti ci coinvolga nell’esperienza sinodale avviata in tutte le diocesi del mondo. Credo che quest’impegno è efficace solo nella misura in cui conserviamo viva memoria di quanto il suo predecessore ebbe a ripetere in molte circostanze e in tanti modi. Cito qui quanto ribadì nel corso della sua visita in Polonia nel 2006: ”Siamo chiamati rimanendo in terra a fissare il cielo, ad orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio” (cf. omelia messa sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006). Nella “Spe salvi”, la seconda sua enciclica, aveva scritto che “Gesù è il vero filosofo e il pastore che ci insegna chi è in realtà l’uomo e quale è la Via per la Vita eterna. Egli ci indica la via e questa Via è la Verità. Egli ci indica anche la vita oltre la morte. Solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita e ci offre una speranza che è insieme attesa e presenza…perché il fatto che questo futuro esista, cambia il presente” (n.6). Dunque, la meta ultima di ogni nostro cammino è il Cielo, è Dio. Il pastore e maestro Benedetto XVI non si è stancato di dire e scrivere che bisogna tornare a parlare del paradiso e dell’inferno, invitando a fidarsi di Dio, sorretti e guidati da Maria Madre della Chiesa e ancella della Misericordia perché è la misericordia che ci muove verso Dio.
6 La Misericordia: filo diretto tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco
Il volume “Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa» (San Paolo editore 2016,) curato dal gesuita Daniele Libanori, nominato nel 2018 vescovo ausiliare di Roma, riporta gli atti di un convegno teologico tenutosi a Roma con alcuni interventi di Benedetto. “L’uomo di oggi – affermava il papa emerito – ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa. Tuttavia, a mio parere, continua a esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante – a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina”. “Papa Giovanni Paolo II – continua Ratzinger – era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza”. “Papa Francesco – prosegue Benedetto citando il suo successore – si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio».
E che dire del giubileo straordinario della Misericordia voluto da papa Francesco? Lo ha annunciato con la bolla pontificia “Misericordiae vultus” il 13 marzo 2015, ed è iniziato il 29 novembre 2015 per concludersi il 20 novembre 20216. Da quest’immersione nella Misericordia Divina, è scaturito rafforzato il messaggio che già san Giovanni Paolo II aveva fortemente incoraggiato con l’istituzione della festa della Divina Misericordia. Tanti nella Chiesa sperano che il messaggio della divina Misericordia sia sempre più accolto e vissuto in tutte le comunità cristiane. E non siamo pochi ad auspicare che la solennità della Divina Misericordia trovi la sua giusta collocazione nel centro del Mistero Pasquale con una celebrazione che partendo dalla Veglia Pasquale si prolunga sino alla Domenica seguente, la “Domenica in albis” o della Divina Misericordia. Un’intera settimana per riconoscere e adorare nell’Eucaristia la Divina Misericordia, la Santissima Trinità, Misericordia infinita, immersi senza riserve nel Cuore divino del divin Figlio, Gesù di Nazareth, Misericordia incarnata.
7 Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere!
Il richiamo alla Misericordia divina è oggi quanto mai necessario poiché molti, anche fuori del mondo cattolico, avvertono l’importanza di tornare a Dio dato che uno dei rischi che, stregati dal mito del progresso, stiamo vivendo è quello di aver accentuato così tanto il primato dell’uomo e delle sue esigenze e potenzialità materiali e tecnico-scientifiche da perdere di vista la realtà: si soffre e si muore, mentre ci si affanna a costruire un piacere che non colma la nostra sete di felicità. La verità che va gridata con la vita è l’annuncio evangelico di sempre: solo abbracciati dall’amore divino tutto il mistero umano assume il suo giusto rilievo e acquista il suo irrinunciabile valore. Riprendo in proposito alcune parole dell’omelia nell’ultima Veglia pasquale del pontificato di Benedetto nel 2012: “Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce”.
Se è vero che si muore come si è vissuto, Benedetto è partito consegnato all’amore infinito di un Dio che è Amore ripetendo tre volte “Gesù ti amo!”. Ora è nella Verità, e per coloro che lo desiderano, continua, assieme a tanti altri, ad essere una stella che dal Cielo indica la meta verso la quale tutti siamo incamminati. Nel suo testamento spirituale, redatto nell’agosto del 2006, ci lascia queste consegne illuminate e precise: “Ora dico a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita — e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.”
Alla sua scuola e proprio per onorarne la memoria sarebbe utile che cessassero divisioni e contrapposizioni nella Chiesa evitando, come invita papa Francesco, “il progressismo che si accoda al mondo”, sia il “tradizionalismo, o “indietrismo”, che rimpiange un mondo passato”, perché entrambe “non sono prove d’amore, ma di infedeltà” e, come se la memoria del Concilio fosse elemento di divisione e non di comunione, “quante volte si è preferito essere “tifosi del proprio gruppo” anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, “di destra” o “di sinistra” più che di Gesù; ergersi a “custodi della verità” o a “solisti della novità”, ( cf. omelia in occasione del nel 60mo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, 11. Ottobre 2022). Il giovane prof. Ratzinger docente a Frisinga e poi a Bonn collaborò all’immediata preparazione e allo svolgimento del Concilio Vaticano II (1962-1965) come già stimato esperto e assistente dell’arcivescovo di Colonia. Insieme al grande teologo Hans Urs von Balthasar Ispirò in parte i padri conciliari con il libro programmatico “Abbattere i bastioni” (1952) nel quale si proponeva una nuova visione di Chiesa non più con un approccio apologetico di distanziamento, ma di comunione e contemporaneità. Benedetto XVI, avendo quindi preso attiva parte al Concilio e avendo ben conosciuto e seguito il cammino della Chiesa nei decenni successivi maturando con fasi la sua visione della situazione ecclesiale, è la persona che più di tutti era in grado d’interpretare il messaggio, il contenuto e l’eredità del Concilio. In verità da cardinale e da papa ha cercato in tutti i modi di far comprendere “il vero Concilio”, mentre una parte notevole della Chiesa ha proceduto ispirandosi al cosiddetto “spirito del Concilio” pur talora non avendo mai letto e studiato interamente i documenti conciliari. Resta come prezioso orientamento per chi vuole capire il Concilio, il discorso natalizio che tenne alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II. Lo ha ripreso in altre circostanze sempre invitando a custodire il tesoro indistruttibile della Tradizione che abbraccia la trasmissione della rivelazione divina, della tradizione apostolica, delle tradizioni ecclesiali, Il deposito della fede affidato alla totalità della Chiesa e il magistero della Chiesa (cf. Catechismo della Chiesa cattolica, parte pima: la professione della fede). In questi anni papa Francesco conduce la barca della Chiesa verso il futuro cercando di alimentare l’entusiasmo di un “Chiesa in uscita”, animata dall’anelito dell’ascolto attento di tutti gli appelli che vengono dalla nostra società, sempre più multiculturale, multireligiosa e in rapido cambiamento. Sarebbe un errore imperdonabile se per “seguire” il papa morto non si ascoltasse il papa regnante, e se per seguire il papa vivente si disprezzassero i papi precedenti. La profezia del vangelo c’invita anzitutto a essere apostoli del momento presente, uomini e donne nutriti della preghiera che è l’ascolto di Dio per essere capaci del dialogo a ogni livello. Solo così potremo trasformare le differenze che ci sono (importante riconoscerle e non trascurarle) non in contrasti ed opposizioni, ma in uno sforzo costante di paziente valorizzazione di ogni soffio dello Spirito dovunque si manifesti. In questo modo, si realizza l’auspicio di papa Benedetto che sin dall’alba del suo pontificato espresse nell’omelia della Messa Corpus Domini, celebrata nella Basilica di San Giovanni in Laterano, sede storica del papa, il 26 maggio 2005. Egli diceva: “La vera meta del nostro cammino è la comunione con Dio -Dio stesso è la casa dalle molte dimore (cfr Gv 14, 2s). Ma possiamo salire a questa dimora soltanto andando “verso la Galilea” -andando sulle strade del mondo, portando il Vangelo a tutte le nazioni, portando il dono del suo amore agli uomini di tutti i tempi”.
Comunione dunque nella reciproca fiducia e unità con il successore di Pietro che, al di là delle persone che si susseguono, è per noi cattolici, come amava ripetere santa Caterina da Siena in un periodo storico di grande turbolenza politica e morale per il papato, “il dolce Cristo in terra” posto “come lucerna in sul candelabro per render lume a’ fedeli cristiani, e dilatare la fede” (cf. Lettera al papa CCCX). Ogni papa, al di là delle sue qualità e inevitabili difetti, è il successore di Pietro ed è a quest’apostolo che Gesù ha promesso: ”Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt.16,13-19). La fede cattolica chiama all’unità con il Papa, l’unità della fede che si alimenta della verità nella carità. Il papa Giovanni XXIII rese pubblica il 29 giugno 1959 l’enciclica “Ad Petri Cathedram sulla conoscenza della verità, la restaurazione dell’unità e della pace nella carità”. In essa cita questa ben nota espressione erroneamente attribuita a sant’Agostino d’Ippona “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in ommnibus caritas”, l’unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte. Ecco un criterio di discernimento comunitario già percepito nella cultura romana e assunto nella Chiesa come guida eevangelica nel necessario dialogo che deve animarne la vita ad ogni livello. E tocca in primo luogo al Papa essere il custode della verità nella carità. Dagli anni della mia adolescenza ho sempre visto nascere, crescere e morire gruppi e movimenti critici verso il pontefice dell’epoca attaccandolo da destra o da sinistra. Con Paolo VI, dopo il Concilio Vaticano II, ci furono all’interno del mondo cattolico, accanto al rifiorire di un nuovo entusiasmo apostolico, anni di turbolenze impreviste con una contestazione furente e persino eccessiva nelle parrocchie e diocesi come negli istituti religiosi. Nel pontificato di san Giovanni Paolo II non mancarono duri attacchi personali al papa polacco da parte della cultura laicista dominante specie sul fronte della vita da difendere e la dignità della persona umana da promuovere. Del tempo di Benedetto XVI si ’è già parlato. Infine, con papa Francesco le polemiche e gli attacchi soprattutto dall’ala detta tradizionalista non si spengono come la cronaca testimonia. Ma tutto questo non deve sorprenderci perché la santa Chiesa è formata da tutti membri che a causa del peccato originale hanno sempre bisogno di purificazione e conversione. Si cita spesso sant’Ambrogio che definisce la Chiesa “casta meretrix”, santa e peccatrice. Ma è bene capire che nel suo significato originario l’espressione “casta meretrix”, lungi dall’alludere a qualcosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare – non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo – la santità della Chiesa. Santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze al suo Sposo («casta») quanto nella volontà di raggiungere tutti (secondo il compito che le è stato affidato dal suo Signore) per portare tutti a salvezza («meretrix»).
Benedetto dall’eremo della contemplazione ha fatto più volte sapere che pregava per l’unità e la comunione ecclesiale e resta un esempio per tutti il suo silenzio in ogni situazione. Al di là delle differenze esistenti tra loro mi piace evocare l’immagine dell’abbraccio che Francesco e Benedetto si sono scambiati in diverse occasioni: due uomini chiamati dalla Provvidenza a guidare il cammino della comunità cattolica in tempi diversi, ognuno con il suo stile e la propria sensibilità, con i propri carismi e inevitabili limiti umani. Gli uomini passano, ma il papa resta e resta la Chiesa.
Sostenitore convinto di ogni papa: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII fu san Luigi Orione (1872-1940), fondatore della congregazione alla quale appartengo. Sin da giovane aveva pensato a creare un’associazione che avrebbe voluto chiamare “la Compagnia del Papa” con lo scopo di stare accanto ai vescovi e soprattutto al papa per amare, difendere, servire la Chiesa e persino soffrire per essa. I suoi scritti sono un florilegio appassionato di fedeltà e di dedizione alla causa della Chiesa e il suo carisma appare attuale in quest’epoca e nel prossimo futuro. “Il nostro Credo – egli scrive a più riprese – è il Papa, la nostra morale è il Papa; la nostra via è il Papa; il nostro amore, il nostro cuore, la ragione della nostra vita è il Papa; per noi il Papa è Gesù Cristo: amare il Papa e amare Gesù è la stessa cosa; ascoltare e seguire il Papa è ascoltare e seguire Gesù Cristo; servire il Papa è servire Gesù Cristo; dare la vita per il Papa è dare la vita per Gesù Cristo! “. E, parlando della congregazione da lui fondata, affermava che “non potrà vivere, non dovrà vivere che per Lui; dev’essere una forza nelle mani di Lui, dev’essere uno straccio ai piedi di Lui o sotto ai piedi di Lui; basta amarlo, basta vivere e morire per lui! Vivere, operare e morire d’amore per il Papa: ecco, questa, e solo questa, è la Piccola Opera della Divina Provvidenza”. Non fu facile la sua esistenza, ma anche nei momenti di più grande buio, mai venne meno in lui la fedeltà nella Chiesa e l’amore per il papa e per i vescovi.
E’ capitato in passato e succede in ogni epoca che per divergenze di vedute, per sensibilità differenti o per evidenti contrasti, alcuni come Lutero e molti altri nei secoli e anche oggi, pur mossi da retta intenzione e denunciando mali veramente esistenti nella Chiesa, finiscano per abbandonarla: ecco un rischio sempre in agguato e da evitare, pur avendo sempre la parresia della verità nella carità. Amministrando il battesimo ad alcuni bambini nella Cappella Sistina l’8 gennaio 2006, Benedetto definì la Chiesa “compagnia di amici, famiglia di Dio” che mai ci abbandona, ed aggiunse “Nessuno di noi sa che cosa succederà sul nostro pianeta, nella nostra Europa, nei prossimi cinquanta, sessanta, settanta anni, ma su un punto siamo sicuri: la famiglia di Dio sarà sempre presente e chi appartiene a questa famiglia non sarà mai solo, avrà sempre l’amicizia di Colui che è la vita”.
La Chiesa è la nostra famiglia, la Madre da amare anche quando mostra nei suoi figli le rughe della fragilità e persino del peccato. Per questo il vero cristiano è disposto a dare per essa la vita. In definitiva, solo in questa luce di passione e di amore, si capiscono le consegne che papa Benedetto ci ha consegnato nel suo testamento spirituale: “Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! “
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