Hanno ripreso vigore i tradizionali partiti all’opposizione, presi alla sprovvista dall’irruenza della protesta giovanile e spontanea, e un ruolo da protagonista, come era prevedibile, hanno conservato o riguadagnato i militari, pur fautori di scelte antitetiche da paese a paese: in Egitto i vertici dell’esercito hanno saputo cavalcare l’ondata delle proteste senza farsi travolgere e appaiono tuttora in una posizione di forza e di privilegio; in Libia e nello Yemen l’esercito si è diviso tra la fedeltà al regime e l’adesione alla rivolta; in Siria, infine, tutte le forze militari e di polizia hanno fatto quadrato intorno ad Assad. Tornano alla ribalta le forze islamiste, fra tutte i Fratelli Musulmani in Egitto, con oscuri presagi per il futuro. La spinta al cambiamento e le aspirazioni di libertà appaiono frustrate, dunque, non solo in quei paesi dove la rivolta è in fase di stallo ma anche lì dove il crollo dei regimi non ha trascinato con sé tutti i vecchi centri di potere, rivelando ancora una volta l’intrinseca debolezza e fragilità delle istituzioni statali e il peso imprescindibile dei clan tribali, delle oligarchie militari e soprattutto della religione, l’islam, in tutte le sue sfaccettature sociali e politiche. L’Arabia Saudita, nel suo anacronistico connubio tra zelo religioso e petrodollari, modernità tecnologica e struttura statuale arcaica fondata su clan e famiglie principesche, vuole mantenere il suo ruolo di arbitro regionale, pronta a rinsaldare la sua alleanza strategica con gli Stati Uniti nel caso l’Iran volesse approfittare della debolezza del fronte arabo sunnita. Da ultimo la crisi economica, che nella congiuntura rivoluzionaria ha conosciuto un ulteriore peggioramento e porta con sé il rischio di esasperare gli antagonismi sociali e generare nuove derive autoritarie. Appaiono ancora fortemente incerti gli esiti della crisi nello Yemen e in Siria e non meno preoccupante, è la situazione libica. Inoltre un Egitto fortemente indebolito, quasi in ginocchio, costituisce altresì un pericolo, come teme Israele e gli Stati Uniti e come forse si auspica invece l’Arabia Saudita, che potrebbe così recuperare sempre più la sua funzione di interlocutore imprescindibile sul piano internazionale.
Ad oggi, quattro capi di stato sono stati costretti alle dimissioni o alla fuga: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali il 14 gennaio 2011, in Egitto Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011, in Libia Muammar Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, è stato catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011 e in Yemen Ali Abdullah Saleh il 27 febbraio 2012. I sommovimenti in Tunisia hanno portato il presidente Ben Ali, alla fine di 25 anni di dittatura, alla fuga in Arabia Saudita. In Egitto, le imponenti proteste iniziate il 25 gennaio 2011, dopo 18 giorni di continue dimostrazioni accompagnate da vari episodi di violenza, hanno costretto alle dimissioni, complici anche le pressioni esercitate da Washington, il presidente Mubarak dopo trent’anni di potere. Nello stesso periodo, il re di Giordania Abdullah attua un rimpasto ministeriale e nomina un nuovo primo ministro, con l’incarico di preparare un piano di “vere riforme politiche”. Sia l’instabilità portata dalle proteste nella regione mediorientale e nordafricana che le loro profonde implicazioni geopolitiche hanno attirato grande attenzione e preoccupazione in tutto il mondo.
Tunisia. Le proteste nel paese iniziano dopo il gesto disperato di un ambulante, Mohamed Bouazizi, che il 17 dicembre 2010 si dà fuoco per protestare contro il sequestro da parte della polizia della sua merce. Il 27 dicembre il movimento di protesta si diffonde anche a Tunisi, dove giovani laureati disoccupati manifestano per le strade della città e vengono colpiti dalla mano pesante operata dalla polizia. Nonostante un rimpasto di governo il 29 dicembre, le rivolte nel paese non si placano. Il 13 gennaio il presidente tunisino Ben Ali in un intervento sulla tv nazionale si impegna a lasciare il potere nel 2014 e promette che garantirà la libertà di stampa. Il suo discorso però non calma gli animi e le manifestazioni continuano. Meno di un’ora dopo decreta lo stato d’emergenza e impone il coprifuoco in tutto il Paese. Poco dopo il primo ministro Mohamed Ghannouchi dichiara di assumere la carica di presidente ad interim fino alle elezioni anticipate. In serata viene dato l’annuncio che Ben Ali, dopo ventiquattro anni al potere, ha lasciato il Paese. A fine febbraio alcune decine di migliaia di manifestanti si radunano nel centro di Tunisi per chiedere le dimissioni del governo provvisorio, insediatosi dopo la cacciata dell’ex presidente Zine el-Abidine Ben Ali.
Egitto. In seguito ai diversi casi di protesta estrema che hanno visto darsi fuoco diverse persone a gennaio, il 25 gennaio violenti scontri si sviluppano al centro del Cairo, con feriti ed arresti, durante le manifestazioni della “giornata della collera” convocata da opposizione e società civile contro la carenza di lavoro e le misure repressive. I manifestanti contrari al regime di Mubarak invocano la liberazione dei detenuti politici, la liberalizzazione dei media, e sostengono la rivolta contro la corruzione e i privilegi dell’oligarchia. Il 29 gennaio il presidente Hosni Mubarak licenzia il governo e nomina come suo vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Suleiman. Proseguono tuttavia gli scontri e le manifestazioni nelle città egiziane. Il 5 febbraio intanto si dimette l’esecutivo del Partito nazionale democratico di Mubarak, mentre il rais alcuni giorni dopo delega tutti i suoi poteri a Suleiman. L’11 febbraio il vice presidente annuncia le dimissioni di Mubarak mentre oltre un milione di persone continuano a manifestare nel paese. L’Egitto è lasciato nelle mani di una giunta militare, presieduta dal feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi, in attesa che venga emendata la costituzione e che venga predisposta la convocazione di prossime elezioni presidenziali. Il resto è storia recente.
Libia. Il 16 febbraio si verificano nella città di Bengasi scontri fra manifestanti,scontenti per l’arresto di un attivista dei diritti umani,e la polizia, sostenuta da militanti del governo. In tutto il Paese, nel frattempo si tengono manifestazioni a sostegno del governo del leader Mu’ammar Gheddafi. Il 17 febbraio si registrano numerosi morti in accesi conflitti a Bengasi, città simbolo della rivolta libica che intende attuare la cacciata del capo del paese al potere da oltre quarant’anni. Nella data del 17 febbraio, proclamata la “giornata della collera”, milizie giunte da Tripoli a Beida, nell’est della Libia colpiscono i manifestanti causando morti e numerosi feriti. Molti dei decessi registrati in Libia risultano concentrati nella sola città di Bengasi, località tradizionalmente poco fedele al leader libico e più influenzata dalla cultura islamista. Il 21 febbraio la rivolta si allarga anche alla capitale Tripoli dove i contestatori danno fuoco a edifici pubblici. Nella stessa giornata a Tripoli si fa ricorso a raid dell’aviazione sui manifestanti per soffocare la protesta. Il 21 febbraio cominciano i tradimenti politici: la delegazione libica all’Onu prende nettamente le distanze dal leader Muammar Gheddafi. Il vice-ambasciatore libico, Ibrahim Dabbashi, a capo della squadra diplomatica libica, accusa il colonnello di essere colpevole di “genocidio” e di aver praticato “crimini contro l’umanita”. Il 20 ottobre 2011 Muammar Gheddafi viene catturato e ucciso vicino a Sirte. Il suo cadavere riposa vicino a Misurata. La Libia, dopo la morte del colonnello Gheddafi, rappresenta un’incognita: la drammatica fine del rais potrebbe aiutare il processo di pace ricomponendo le diverse, e antagoniste, anime della guerra civile o potrebbe piuttosto precipitare il paese nel caos esacerbando le divisioni e lasciando sempre più spazio alle manovre di Francia e Gran Bretagna e alla stretta reazionaria dell’Arabia Saudita, preoccupata di mantenere lo status quo e soprattutto di attraversare indenne questa stagione di rivolte. Il progetto di ricostruzione della Libia non può poggiare su alcuna preesistente struttura statuale e nazionale, minacciato piuttosto dalla forza centripeta delle divisioni regionali interne (Cirenaica contro Tripolitania) e da un possibile protagonismo delle forze islamiste.
Siria. Le sommosse popolari in Siria del 2011-2012 sono un moto di contestazione, simile a quelli che si svolgono nel resto del mondo arabo nello stesso periodo, che interessa numerose città della Siria dal mese di febbraio del 2011. Le proteste, hanno l’obiettivo di spingere il presidente siriano Bashar al-Assad ad attuare le riforme necessarie a dare un’impronta democratica allo stato. Evidentemente la rivolta in Siria ha preso un’altra direzione, di cui le potenze internazionali sono i maggiori responsabili.
Proteste in corso: Guerra civile siriana; proteste in Arabia Saudita del 2011-2013; sommosse popolari in Bahrein del 2011-2013; proteste in Giordania del 2011-2013; proteste in Sudan del 2011. Proteste de facto terminate: proteste in Algeria del 2010-2012; a Gibuti del 2011; in Iraq del 2011; in Kuwait del 2011-2013; in Libano del 2011; in Mauritania del 2011-2012; in Marocco del 2011-2012; in Oman del 2011; nel Sahara Occidentale del 2011; rivolta yemenita. a cura di Francis Marrash
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