R. – Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, la scena politica era stata dominata dall’esplosione dei nazionalismi e i cattolici che – in seguito al divenire dei processi di unificazione sotto l’insegna del liberalismo – erano stati spesso esclusi dal potere politico, videro nella guerra un’occasione attraverso la quale era possibile cercare di riconquistare quel ruolo da cui erano stati allontanati. Dunque, cominciarono ad avere alcuni intrecci con i nazionalismi, ma soprattutto cercarono di mostrare un atteggiamento di lealtà nei confronti dei rispettivi Stati che li chiamavano alle armi e li avviavano sui fronti.
D. – Diversa fu invece la posizione espressa da Papa Pio X, che oppose un rifiuto alla richiesta dell’imperatore d’Austria, ad esempio, di benedire le armi. Benedetto XV, eletto Papa pochi mesi dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale – il 3 settembre 1914 – rafforzò questa posizione condannando la guerra e le sue origini ideologiche, fin dalla sua prima Enciclica Ad Beatissimi Apostolorum…
R. – Sì, non vi è dubbio che il Papato non manifestò alcuna accondiscendenza verso l’esaltazione della guerra e in particolare verso quella glorificazione del conflitto, che difendeva dall’idolatria della patria. Comincia ad emergere, proprio in questi tempi, una forte denuncia di una religione secolare della nazione che assolutizza questo valore come criterio organizzativo della vita collettiva e ferma fu la denuncia degli enormi mali che il conflitto comportava da parte di Roma; così come instancabile fu l’appello a cercare le vie della pace, anche accompagnato poi da un impegno concreto per lenire sofferenze e dolori. Tuttavia, credo che per dare una visione concreta della posizione romana non si possa dimenticare che arrivò anche dal Papato – almeno in via indiretta – un’approvazione verso quel principio di presunzione che assegnava ai governi il diritto di stabilire se una guerra era necessaria, o meno necessaria per il bene della patria, e che assegnava ai fedeli il dovere di obbedire agli ordini dei governi, almeno inizialmente, almeno nei primi anni.
D. – Eppure, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, e poi il corso del conflitto portò a una maggiore consapevolezza e anche a una revisione – forse – di questa impostazione di fondo. Benedetto XV, nella nota che mandò poi nell’agosto del ’17 a tutte le nazioni belligeranti, definisce il conflitto una “inutile strage”; l’inizio di una “delegittimazione religiosa dei conflitti”, se così possiamo dire…
R. – In effetti, quella frase sulla “inutile strage” è di grande importanza, perché se la guerra è inutile viene a cadere il principio su cui si era basata la teologia della “guerra giusta”, cioè viene a cadere la ricetta morale dell’uso della violenza al fine di precostituire quel corretto ordine della vita collettiva, la cui violazione aveva appunto reso necessario, reso lecito il ricorso alle armi. Quindi, con tutti i limiti di un documento essenzialmente diplomatico, Roma inizia con l’affermazione che se una guerra talmente lunga, talmente prolungata, con disastri non solo rivolti agli eserciti, ma anche rivolti alle popolazioni civili – quindi, se questo tipo di guerra con tale crudeltà, con tale efferatezza, con tanti mali – è una guerra inutile, questo significa mettere in questione la liceità morale della guerra. E in questo modo Roma inizia il percorso di cui oggi vediamo gli esiti: la Chiesa non si presenta più come il giudice, o l’arbitro dei conflitti, né si propone di moralizzarli, ma vuole intervenire nei conflitti come attiva operatrice di pace. Quel documento inizia appunto questo cammino.
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