Nel 1949 i comunisti presero il potere con Mao Tse-tung. Il regime maoista si professava apertamente ateo. Non era in pregiudizievole contrasto con la religione, purché si trattasse della religione “naturale”, cioè di quella cinese. In una prima fase del processo di creazione dell’uomo socialista, la religione tradizionale poteva anche essere tollerata. Ma non il cristianesimo che, per la sua origine straniera, veniva visto come una potenziale minaccia alla creazione della società socialista. Il cristianesimo fu quindi combattuto con ogni mezzo, sradicato ed estirpato dal tessuto sociale cinese. Le Chiese cristiane vennero accusate di essere conniventi con le potenze imperialiste. Vennero loro tolte tutte le proprietà, da quelle fondiarie a quelle immobiliari. La legge sulla riforma agraria collocò le comunità cristiane nel campo dei nemici di classe. Le chiese cristiane provarono a tendere la mano al regime. Nel maggio 1950 alcune personalità delle chiese protestanti formularono un “Manifesto cristiano”, in cui si dichiaravano favorevoli alla riforma agraria e proclamavano la loro estraneità alle potenze imperialiste. Nasceva il “Movimento delle Tre Autonomie”
(autogoverno, autofinanziamento, autopropaganda). Zhou Enlai, capo del governo, approvò il manifesto. Poco più di un anno dopo il documento era stato sottoscritto da 400.000 cinesi, la metà circa di tutti i protestanti del paese. Nel novembre 1950 i cattolici del Sichuan settentrionale pubblicarono un “Proclama sull’indipendenza e la riforma”. Il regime fece pressioni per l’allineamento con il Movimento delle Tre Autonomie. Intervennero i vescovi cattolici, che rifiutarono ogni forma di distacco dalla Santa Sede. Il regime intanto procedeva nella chiusura di seminari, cattolici e protestanti, e nell’espulsione di missionari europei. Venne colpito anche l’impegno dei cristiani nell’aiuto agli orfani e nelle scuole.Tra il 1951 e il 1952 un’ondata di arresti e di esecuzioni sommarie attraversò il paese. Tra le centinaia di migliaia di vittime, vennero colpiti anche molti cristiani. Fu altissimo il numero delle persone imprigionate. Nella Cina maoista le forme di reclusione erano diverse. Nelle prigioni vere e proprie venivano inviati i condannati a morte (in attesa di esecuzione) o i quadri di partito caduti in disgrazia. La grande massa dei detenuti condannati per reati comuni scontava invece la pena nei campi di lavoro. Ce n’erano di due tipi: campi di lavoro forzato (chiamati in cinese laogai) e forme attenuate di deportazione come il laojiao e il jiuye. In quest’ultimo i lavoratori coatti avevano qualche libertà: potevano ricevere visite e sposarsi. La maggior parte dei cristiani veniva inviata nei campi di lavoro forzato. In teoria lo scopo della reclusione era far cambiare pensiero ai “rei” per farne socialisti modello e poi reintegrarli nella società. In realtà i condannati rimanevano chiusi nei campi per il resto della loro vita. Nel 1957 il Partico comunista creò l’Associazione patriottica cattolica cinese, una chiesa autonoma, nazionale, non in comunione con Roma. L’A.P. in teoria è indipendente. In realtà il Partito comunista cinese decide chi può essere ordinato sacerdote o vescovo, controlla i corsi di catechismo per bambini e adulti e quali devono essere i temi trattati. Da allora la situazione non si è sostanzalmente modificata. Secondo un rapporto sulla libertà religiosa in Cina realizzato da ChinaAid, nell’anno 2012 sono stati riscontrati 132 casi di persecuzione nel paese; 4.919 cristiani sono stati perseguitati, di cui 442 sacerdoti o pastori; 1.441 persone sono state imprigionate, di cui 236 sacerdoti o pastori; nove persone sono state giustiziate. Inoltre, 28 persone hanno subito pestaggi o torture. a cura di Giovanni Profeta
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