Fine anni Cinquanta. L’unico avvenimento musicale in Italia è il Festival di Sanremo. E cosa succedeva nella provincia di Forlì? «Naturalmente si rifacevano le canzoni di Sanremo. Si prendeva un teatro a noleggio e si andava avanti per tre giorni, fino allo sfinimento. E i superstiti venivano premiati. Io ero sempre un superstite. Canzoni d’amore cretine. Adesso però sarebbero un testo prezioso per Jovanotti. Partecipava anche Francesco Marsella, che sarebbe diventato Checco dei Giganti. Un anno vincevo io, l’altro lui. Avrei dovuto essere contento di quella celebrità. Invece mi chiedevo come si facesse a cantare brani così stupidi. E aggiungevo: se si dicono cose stupide il rischio è che si viva da stupidi. La questione, insomma, era seria e riguardava la vita». Incontriamo il cantautore Claudio Chieffo, 61 anni, che è ancora viva l’emozione per il concerto che ha tenuto al Meeting di Rimini e dedicato a un grande amico, don Luigi Giussani. «Mi hanno detto che c’erano 4 mila persone. È andata proprio di lusso, come quando hai di fronte qualcuno che ti vuole bene, e te lo dimostra con un grande, interminabile abbraccio. Ho cantato due ore di fila, venti canzoni, ma potevo farne altre quattro o cinque. Non so come ho potuto farcela, però è accaduto». Due mesi fa il concerto sarebbe stato impossibile. La malattia era peggiorata. Chieffo non camminava più. Non ci capiva più. «Il male avanzava, un tumore maligno al cervello, non operabile, diagnosticato a novembre». Lo prende in cura il professor Amerigo Boiardi, oncologo dell’Istituto Besta di Milano. «Gli dico: ora che faccio? Smetto tutto, vendo il pulmino che ho appena comprato per girare l’Italia e comunico all’amico pianista di trovarsi un altro lavoro? Boiardi rilancia: “Guarda, se ne hai voglia, ti dico di continuare a suonare e a cantare. Per te e per tutti noi”». Claudio dà retta. Prosegue con i concerti, inizia a pensare al nuovo album, poi il crollo. «D’accordo finire in carrozzella, però il timore più grande è andare via di testa, perdere la ragione. A un certo punto la nebbia. Non capivo più niente. Non riuscivo a controllare nemmeno le funzioni più elementari. Pisciarsi in mano e non poter fare un gradino di scale. e poi ci dicono che siamo padroni di noi stessi. Mi viene da ridere». Poi l’improvviso miglioramento. «Mi si snebbia il cervello, non sento più la paresi nella parte sinistra. E ricomincio a muovermi. Torno a fare quelle benedette scale. Sono felice. Vengo al Meeting di Rimini, finalmente torno a cantare.».
Quella di Claudio Chieffo è la storia dantesca di un’anima musicale. E di una genialità umana suscitata da un Virgilio. Adesso le sue canzoni sono cantate dappertutto. Dalla Russia all’Africa, dall’Asia all’America Latina. Ma all’inizio non c’è altro che l’incontro con un sacerdote di Forlì alto due metri. «Avevo 15 anni, pensavo che Dio non esistesse, che esistessi solo io e che la Chiesa fosse una fregatura. Quel prete si chiamava don Francesco Ricci, sapeva che suonavo la chitarra, mi aveva sentito strimpellare nei campi scuola di Azione Cattolica. Ricci dirigeva un mensile culturale che si chiamava Il termometro. Qualche volta lo vendevo anch’io, ma senza entusiasmo. Una sera me lo ritrovai in casa. Era venuto a parlare con i miei. A invitarmi a una vacanza. Ci andai e vidi che loro stavano bene insieme. Erano una bella compagnia. Lì iniziò a sgretolarsi la mia corazza. Poi, attraverso Ricci, ecco don Giussani. Mi chiamava “Forlì”. Scrivo “Viva l’anima mia per cantare le tue lodi” (Alleluja della Forza, ndr). A 18 anni gli canto La ballata dell’uomo vecchio. E lui mi dice: “Ho capito chi sei!”. Tra me: “Ma se non ho capito io chi sono. Uno che mi parla così mi interessa”».
Un pirata come Bob Dylan
Con Giussani il rapporto si fa sempre più stretto e familiare. «Io allora mi sentivo quasi inerme. Siamo nel 1965 e c’era Bob Dylan, il più grande cantautore e pirata del mondo. Cantava Blowin’ in the wind, che “la risposta è nel vento”, che “la risposta non c’è”. Qualche burlone, in modo di adattarla ai canti di chiesa, l’aveva sfregiata aggiungendo che “la risposta c’è”. Un disastro, insomma. Dylan allora mi sembrava come un pirata sulla sua bella e grande nave ammiraglia che sparava tutti i suoi colpi. Con effetti stupefacenti. Io invece navigavo su una barca a remi. Però mi sentivo anch’io pirata. Non mi piacevano, come a Dylan, le risposte della società. Però io avevo incontrato la risposta. Che non era una teoria ma un fatto. Sono persuaso che se fosse stata una teoria non sarebbe nata una sola canzone. Invece, siccome era un fatto, ecco La ballata dell’uomo vecchio, Beati i furbi, La ballata del potere, La nuova Auschwitz. Canzoni che Giussani definiva fra loro inscindibili».
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La ballata del potere, conosciuta anche come Forza compagni, l’ha scritta per sua moglie Marta che ai tempi frequentava l’Università di Pisa ed era rimasta affascinata dalle parole di Adriano Sofri. «Lei ha sempre avuto urgente la domanda di giustizia. Quella canzone nasce per dirle che c’è qualcuno che ci libera dal male. Tutte le mie canzoni, anche quelle più stupide (no stupide no, perché a me piace anche Quando uno ha il cuore buono) nascono dal desiderio di condividere. Insomma, se Dio vuole, nasce una canzone. Se Dio vuole, certo, perché le gravidanze isteriche non producono nulla».
Quella di Chieffo è tutto tranne la storia di una conversione mistica. È la sorpresa di un prete che gli si fa amico e compagno di strada. La sorpresa per questo Giussani «che voleva sentire tutte le mie nuove canzoni e che mi incoraggiava a dire con il canto l’esperienza che vivevo», È la sorpresa di una compagnia che sta assieme per giudicare la vita a partire dall’ideale cristiano. «Non li ho mollati più. Ricordo il grande pittore americano Bill Congdon che mi diceva spesso che la musica, le canzoni sono una finestra aperta sul mistero di Dio e della bellezza. Ho detto al concerto del Meeting che era bello correre a Milano per ascoltare e parlare con Giussani. Ma ho aggiunto che era ancora più bello seguirlo». Gli anni Settanta sono anni di concerti nonostante l’ostilità della sinistra extraparlamentare. «La mia vita si è legata sempre più alla musica. Allora non c’era nessuno che proponesse concerti alternativi alla sinistra o al commercio. Ma a tutti i miei concerti saltava fuori il popolo. Un giornalista un giorno mi ha detto: “Chieffo, ma lei si rende conto che non ha un pubblico, ma un popolo?”. Gli ho risposto: “Io non ho un popolo. Io faccio parte di questo di popolo”». Lo scorso aprile, la sera della vittoria elettorale della sinistra, i partiti della coalizione avevano organizzato una festa nella piazza principale di Forlì. «La sera l’abate dell’Abbazia aveva sciaguratamente fissato una meditazione sull’encliclica Deus caritas est accompagnata da mie canzoni. Io non volevo andarci, ma alla fine ho accettato. C’erano oltre mille persone in basilica e duecento fuori. Abbiamo cantato tutti per un’ora e mezza. In piazza, invece, non si sentiva neanche una Bandiera Rossa. Niente. Per festeggiare cantavano Roma non fa’ la stupida stasera. Ho pensato che quando un popolo non sa più i suoi canti sta morendo come popolo. Non cantavano, che so, Bella ciao. Per attirare gente si scarta la propria tradizione e ci si rivolge alla prima arietta sentimentale che si pensa possa scaldare l’anima. Patetico».
Chieffo ha fatto oltre tremila concerti in Italia e nel mondo. Anche in Russia e Kazakistan. Senza mai salire sul carrozzone dei cantautori religiosi. E dei preti canterini («sono un invito alla bestemmia», dice). «Ricordo quella persona straordinaria di Mark Harris, tastierista e arrangiatore che ha accompagnato l’ultima tournée del povero Fabrizio De Andrè. Una volta venne al Meeting per suonare con me. I giorni successivi nessun riscontro sulla stampa. Niente. Nemmeno una riga. Neanche su quella cattolica. Rimasi deluso, glielo confessai. Mark mi sorprese: “Claudio, questo è il successo perché è successo”. E infatti non si cancella dal cuore della gente. Che non significa essere improvvidi e stupidi. Perché la gente ha bisogno di sapere che lì c’è uno che canta. Che c’è la possibilità di andare ad ascoltarlo dal vivo. E che è un peccato grave la censura dei giornali. Però è fondamentale che accada. E bisogna fare di tutto perché accada. Io sto lottando ancora per questo. Nonostante il male».
A Chieffo non sono mai piaciuti i cantautori mesti («alla Gino Paoli», dice). Ha sempre avuto un debole per Giorgio Gaber. Quando il Signor G si esibiva a Forlì non mancava mai. «Gli feci sapere che volevo incontrarlo. I compagni gli dissero di lasciar perdere, che ero un cattolico. Risultato, Giorgio mi invitò a cena. Da quella volta lì, quando veniva in città il concerto del Signor G, la famiglia Chieffo aveva un palchettto. Voleva che andassi in camerino, ci teneva a sapere se lo spettacolo mi fosse piaciuto. Che amicizia è nata! Lui si innamorò della mia Il fiume e il cavaliere. Sempre molto affettuoso, mai remissivo nel giudizio. Accettò di fare alcuni concerti con me. Ricordo una serata a Chiavari. Uno del pubblico incominciò a insultarmi. Giorgio mi difese con forza. Un giorno toccammo il punto: “Tu hai molte certezze – mi disse – mentre è il dubbio a mandare avanti il mondo”. Gli risposi, quasi piangendo: “Guarda Giorgio, io non ho molte certezze, ma una ce l’ho: la misericordia di Dio è molto più grande di tutto il male che io e te possiamo fare, che l’umanità può fare”. Sono certo che la misericordia è l’ultima parola. Io naturalmente sono stato molto felice della preferenza che don Giussani aveva per lui. Perché Gaber era vero. Gli altri fanno ridere. Sono tutte finte domande. Non venite a dirmi che quelle di Vasco Rossi piuttosto che di Renato Zero. Quando ho saputo che Giorgio stava male è nata La canzone del melograno, ma non ho mai potuto cantargliela. È un dialogo fra Cristo e un viandante che non crede. “Segui il raggio di luce e la vita ti porterà dove il dubbio ritorna domanda e rinasce il cuore: nel giardino c’è Dio che ti aspetta e ti vuole parlare puoi sederti vicino vicino ad ascoltare”».
Non finisce con la malattia
Non fosse che sappiamo dove ci troviamo – una villetta al cuore della vecchia Forlì, Marta che ci porta il caffè, Claudio che non smette di schermirsi («ma non voglio farvi perder tempo»), una stanza da letto seppellita sotto una montagna di componenti elettronici, computer, spartiti, jack e cavi sospesi per aria – verrebbe da credere che siamo finalmente in un posto dove alla fine di ogni predica si capisce di che pasta è fatto un uomo. Un Tu che non finisce di stupire per la letizia e l’affetto che sprigiona il suo dirsi all’altro. Chieffo apre il notebook e fa partire una base. C’è il pianoforte che suona. Claudio inizia a cantare: «”E io ti sto aspettando, amico, ti sto aspettando, tu non sei solo come credi: cammino nelle tue scarpe. Sotto questo albero si sta bene e io non vedo l’ora di abbracciarti, di vederti arrivare”. Questa è Chanson de l’Ange e l’ho scritta per una cara amica che non c’è più, Elena. Sono riuscito a cantargliela e i suoi genitori hanno voluto che lo facessi anche al funerale».
«Quando mi hanno detto del cancro, per due mesi non ho domandato di guarire. Poi gli amici mi hanno detto di pregare, se non per me, per mia moglie Marta e per i miei figli Benedetto, Maria Celeste e Martino. Ho obbedito un’altra volta alla compagnia. E ho così capito che il male non è l’ultima parola su di me, anche se il limite è sempre stringente e non basta una vita per accettarlo, ma la grazia di Dio, la gloria di Dio. Ora sono contento, l’avventura continua. Leale con la vita. Però che bella la nostra storia, una storia di libertà. Comunione è liberazione».
Redazione Papaboys (Fonte Tempi.it/ Luigi Amicone)