Un pirata come Bob Dylan
Con Giussani il rapporto si fa sempre più stretto e familiare. «Io allora mi sentivo quasi inerme. Siamo nel 1965 e c’era Bob Dylan, il più grande cantautore e pirata del mondo. Cantava Blowin’ in the wind, che “la risposta è nel vento”, che “la risposta non c’è”. Qualche burlone, in modo di adattarla ai canti di chiesa, l’aveva sfregiata aggiungendo che “la risposta c’è”. Un disastro, insomma. Dylan allora mi sembrava come un pirata sulla sua bella e grande nave ammiraglia che sparava tutti i suoi colpi. Con effetti stupefacenti. Io invece navigavo su una barca a remi. Però mi sentivo anch’io pirata. Non mi piacevano, come a Dylan, le risposte della società. Però io avevo incontrato la risposta. Che non era una teoria ma un fatto. Sono persuaso che se fosse stata una teoria non sarebbe nata una sola canzone. Invece, siccome era un fatto, ecco La ballata dell’uomo vecchio, Beati i furbi, La ballata del potere, La nuova Auschwitz. Canzoni che Giussani definiva fra loro inscindibili».
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La ballata del potere, conosciuta anche come Forza compagni, l’ha scritta per sua moglie Marta che ai tempi frequentava l’Università di Pisa ed era rimasta affascinata dalle parole di Adriano Sofri. «Lei ha sempre avuto urgente la domanda di giustizia. Quella canzone nasce per dirle che c’è qualcuno che ci libera dal male. Tutte le mie canzoni, anche quelle più stupide (no stupide no, perché a me piace anche Quando uno ha il cuore buono) nascono dal desiderio di condividere. Insomma, se Dio vuole, nasce una canzone. Se Dio vuole, certo, perché le gravidanze isteriche non producono nulla».
Quella di Chieffo è tutto tranne la storia di una conversione mistica. È la sorpresa di un prete che gli si fa amico e compagno di strada. La sorpresa per questo Giussani «che voleva sentire tutte le mie nuove canzoni e che mi incoraggiava a dire con il canto l’esperienza che vivevo», È la sorpresa di una compagnia che sta assieme per giudicare la vita a partire dall’ideale cristiano. «Non li ho mollati più. Ricordo il grande pittore americano Bill Congdon che mi diceva spesso che la musica, le canzoni sono una finestra aperta sul mistero di Dio e della bellezza. Ho detto al concerto del Meeting che era bello correre a Milano per ascoltare e parlare con Giussani. Ma ho aggiunto che era ancora più bello seguirlo». Gli anni Settanta sono anni di concerti nonostante l’ostilità della sinistra extraparlamentare. «La mia vita si è legata sempre più alla musica. Allora non c’era nessuno che proponesse concerti alternativi alla sinistra o al commercio. Ma a tutti i miei concerti saltava fuori il popolo. Un giornalista un giorno mi ha detto: “Chieffo, ma lei si rende conto che non ha un pubblico, ma un popolo?”. Gli ho risposto: “Io non ho un popolo. Io faccio parte di questo di popolo”». Lo scorso aprile, la sera della vittoria elettorale della sinistra, i partiti della coalizione avevano organizzato una festa nella piazza principale di Forlì. «La sera l’abate dell’Abbazia aveva sciaguratamente fissato una meditazione sull’encliclica Deus caritas est accompagnata da mie canzoni. Io non volevo andarci, ma alla fine ho accettato. C’erano oltre mille persone in basilica e duecento fuori. Abbiamo cantato tutti per un’ora e mezza. In piazza, invece, non si sentiva neanche una Bandiera Rossa. Niente. Per festeggiare cantavano Roma non fa’ la stupida stasera. Ho pensato che quando un popolo non sa più i suoi canti sta morendo come popolo. Non cantavano, che so, Bella ciao. Per attirare gente si scarta la propria tradizione e ci si rivolge alla prima arietta sentimentale che si pensa possa scaldare l’anima. Patetico».
Non finisce con la malattia
Non fosse che sappiamo dove ci troviamo – una villetta al cuore della vecchia Forlì, Marta che ci porta il caffè, Claudio che non smette di schermirsi («ma non voglio farvi perder tempo»), una stanza da letto seppellita sotto una montagna di componenti elettronici, computer, spartiti, jack e cavi sospesi per aria – verrebbe da credere che siamo finalmente in un posto dove alla fine di ogni predica si capisce di che pasta è fatto un uomo. Un Tu che non finisce di stupire per la letizia e l’affetto che sprigiona il suo dirsi all’altro. Chieffo apre il notebook e fa partire una base. C’è il pianoforte che suona. Claudio inizia a cantare: «”E io ti sto aspettando, amico, ti sto aspettando, tu non sei solo come credi: cammino nelle tue scarpe. Sotto questo albero si sta bene e io non vedo l’ora di abbracciarti, di vederti arrivare”. Questa è Chanson de l’Ange e l’ho scritta per una cara amica che non c’è più, Elena. Sono riuscito a cantargliela e i suoi genitori hanno voluto che lo facessi anche al funerale».
«Quando mi hanno detto del cancro, per due mesi non ho domandato di guarire. Poi gli amici mi hanno detto di pregare, se non per me, per mia moglie Marta e per i miei figli Benedetto, Maria Celeste e Martino. Ho obbedito un’altra volta alla compagnia. E ho così capito che il male non è l’ultima parola su di me, anche se il limite è sempre stringente e non basta una vita per accettarlo, ma la grazia di Dio, la gloria di Dio. Ora sono contento, l’avventura continua. Leale con la vita. Però che bella la nostra storia, una storia di libertà. Comunione è liberazione».
Redazione Papaboys (Fonte Tempi.it/ Luigi Amicone)
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