Scoprirsi poveri, per milioni e milioni di italiani che non hanno memoria della povertà… che hanno vissuto nella sensazione che mai lo sarebbero diventati… convinti com’erano che fosse appannaggio dei Sud del mondo, è stato ed è un autentico choc collettivo. Certo, le cifre e le statistiche dicono che siamo ancora fra gli otto Paesi più industrializzati, ma il nostro Pil non cresce da anni e l’esercito dei nostri poveri, invece, s’ingrossa giorno dopo giorno. Ma questo non è il luogo delle statistiche quanto quello del sentimento collettivo.
Diciamo la verità: dallo choc non ci siamo ancora ripresi. Al punto che continuiamo a raccontare storie di persone che per dignità celano la loro nuova condizione di disagio sociale. Pensionati e anziani, ma non solo. Anche giovani, a cui le famiglie non riescono a garantire più nulla di quanto sino all’altro ieri era certo. È giusto parlare dell’altro ieri perché all’alba del settimo anno di recessione siamo qui a sperare che lo 0,1% di ripresa del Pil possa assestarsi e invertire anche il sentimento popolare. Si chiama fiducia, ma per ora è merce rara. Anzi, abbonda la rabbia che ha messo in moto i forconi e che oscilla fra ribellismo e populismo. Entrambi nefasti per un Paese ordinato e civile.
La verità è che non ci siamo preparati culturalmente e spiritualmente alla povertà. Abbiamo anche sperperato, non solo le nostre ricchezze (pensate solo allo sciupìo irresponsabile di risorse pubbliche a ogni livello territoriale), ma anche i nostri talenti. Qualcuno ha scritto che non vanno messi sotto terra perché poi il padrone te ne chiede conto. E noi, invece, abbiamo perso decenni, escludendo la povertà dal nostro orizzonte, quasi che il benessere e la ricchezza fossero il nostro destino. L’illusione del progresso illimitato (grande feticcio dell’Illuminismo) contraddetto dalla dura realtà. Un attimo di distrazione, o di abulia collettiva, ed eccoti in gramaglie. Ora è il tempo della rivincita del principio di realtà, nel quale il realismo cristiano ha tanto da dire e da dare.
In questo incredibile 2013, è venuto un uomo “preso quasi dalla fine del mondo” che dal primo giorno della sua missione ci parla della povertà non come dannazione dell’umanità, ma come una sorella con la quale abituarsi a convivere perché “i poveri saranno sempre con noi”, ma aspettando da noi una parola di speranza. Quella di cui tutti abbiamo bisogno se vogliamo trovare dentro di noi le ragioni per garantire un futuro a noi stessi, alle nostre famiglie, alle nostre comunità e al nostro Paese. Papa Francesco non ha mai seminato facili illusioni. In questi mesi ha spalancato ancor più le porte della Chiesa, ma ha costruito la sua pedagogia dell’accoglienza e della misericordia sulla speranza della Salvezza portata da un Uomo di nome Gesù. Quanto scalpore hanno fatto alcune sue espressioni che ci introducevano alla consapevolezza della povertà: “Nel sudario non ci sono tasche” o “la morte di un uomo non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia!”. È la sua personale pedagogia (lui che ha scelto di vivere a pensione, invece che nell’appartamento papale) per la presa di distanza dalle cose in nome di una sobrietà e di una destinazione universale dei beni che la globalizzazione (soprattutto finanziaria) ha reso sempre più ardue.
I cattolici italiani hanno capito bene la lezione. In ogni angolo d’Italia le nostre comunità hanno dato nuovo slancio all’aiuto verso i vecchi e nuovi poveri. Molti pastori hanno rivoluzionato le priorità delle loro Chiese locali. Le emergenze sono tante, ma nessuno si è tirato indietro. Comunque bisogna fare e dare. Più pacchi viveri proprio mentre l’Europa taglia i suoi finanziamenti per gli acquisti di derrate alimentari da destinare ai poveri. Pazienza, dicono i nostri parroci durante le omelie, in qualche modo faremo. E chiedono aiuto alle famiglie che possono dare qualcosa. È il modo dei cattolici di non arrendersi alla povertà e di dividere quello che si ha. Storie analoghe vengono anche da altri Paesi europei dove la povertà morde. Ovunque i cattolici non si tirano indietro.
Cosa li muove? La Speranza, solo la Speranza.
Editoriale di Domenico Delle Foglie, direttore Agenzia Sir
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