Fornire ai poveri un reddito minimo per vivere potrebbe essere possibile. Alla proposta, dopo anni di disinteresse, gli animi della politica sembrano scaldarsi. Appare utile fare il punto della situazione. In poco tempo per introdurre una legge abbiamo assistito alla marcia del Movimento 5 stelle e all’annuncio del governatore della Lombardia, sono seguiti i commenti favorevoli di alcune formazioni politiche e le preoccupazioni critiche di altri. Per ora sappiamo che il numero di persone in condizioni di povertà assoluta e relativa supera i 16 milioni, dice l’Istat, di questi aggiunge Save the children circa 2 milioni e mezzo sono bambini. Sappiamo poi che l’Italia è l’unico paese europeo, oltre alla Grecia, privo di una misura universale (per tutti) di intervento contro la povertà. Eppure le proposte tecniche esistono dal “Basic income”, che si propone di garantire un livello decoroso di esistenza attraverso l’esigibilità dei diritti sociali svincolate dalle condizioni lavorative, al “Sostegno per l’inclusione attiva” (Sia) che prevede un programma di inserimento sociale e lavorativo oltre che un sostegno economico. Il Sia era quasi riuscito a tradursi in una politica effettiva anche se sperimentale, ma è stata ridotta a una social card più robusta e la parte di promozione sociale è rimasta senza applicazione. C’è infine il “Reddito di inclusione sociale” una proposta avanzata da un’alleanza di realtà della società civile tra cui Acli, Caritas, Azione cattolica Italiana, ma anche i tre sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil: una proposta che ha il pregio di prevedere un’applicazione graduale per un impatto più sostenibile per le casse dello Stato.
A prescindere dalle differenze, gli interventi sono accumunati da tre elementi: considerano una misura universale (cioè diretta a tutti quelli che ne hanno bisogno); mirano a costruire un percorso di sostegno personalizzato per l’inserimento sociale; puntano a offrire prospettive di inserimento lavorativo, quando possibile, agli assistiti.
C’è il problema, c’è la sensibilità sociale, e pare quella politica, ci sono proposte concrete.
Ma tutto rimane circoscritto al dibattito e non si converte in azione. Cosa si aspetta?
Forse troviamo la motivazione a partire dall’omelia di Papa Francesco per la 20ª assemblea della Caritas internazionale: “Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra che manchi la volontà di condividere con tutti… Fare quello che possiamo perché tutti abbiano da mangiare, ma anche ricordare ai potenti della terra che Dio li chiamerà a giudizio un giorno”. Le parole ci suggeriscono due aspetti per affrontare il dramma della povertà.
C’è la “disponibilità a condividere” che è insita in qualsiasi intervento: senza la possibilità di attuare una redistribuzione della ricchezza all’interno delle fasce della popolazione, i poveri rimarranno sempre tali.
C’è la “responsabilità dei potenti”: non ci si può fermare ad analisi o dichiarazione di intenti, quando si arriva a un certo punto occorre assumersi il coraggio di scegliere una strada da imboccare. Senza questo momento la politica delle parole si chiude nell’ipocrisia di cui la realtà della politica dovrà dare ragione.