Dio ci ama con una tenerezza infinita. Questa è la cosa più importante, come diceva padre Josef Kentenich: “L’amore è sempre la chiave magica che apre il cuore dell’uomo”.
Ci spinge sulla via. Ci chiama sulle acque perché ci avviciniamo a lui confidando nella nostra forza, nella sua forza. Ci aspetta quando fuggiamo nella direzione sbagliata.
Il suo amore ha la chiave della nostra anima. Gesù ci conosce così bene che sta dietro l’angolo della strada in cui sa che passeremo.Perché conosce i nostri passi, perché ci ama fin dal seno materno.
Non si indigna per le nostre decisioni irresponsabili. Aspetta con infinita pazienza. E sa che possiamo sempre incontrarci di nuovo. Non scende dalla mia barca anche se io voglio rimanere da solo. Non si allontana dai miei passi anche se io già corro via.
Confida con un amore infinito nella bellezza che un giorno ha nascosto dietro i miei occhi, e si entusiasma come un bambino vedendo tutto ciò che ottengo con i doni che Egli stesso mi ha dato.
Mi abbraccia quando mi ribello. Mi consola quando dispero. Torna a credere in me quando io stesso non ci credo.
Oggi guardo la mia vita con pace, con cuore ferito. Confido perché Egli confida e credo perché Egli crede. Quali sono le mie forze? Quali sono le mie debolezze? Che direzione seguono i miei passi?
Guardiamo la nostra debolezza e non ci scoraggiamo. La forza è nella mia debolezza. Queste parole di San Paolo mi commuovono sempre: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me.
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Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Corinzi 12, 7-10).
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Mi glorio, mi rallegro nella mia debolezza. Se sono debole sono forte. Se fallisco non mi turbo. Accettando la mia debolezza, lascio che la luce del mio ideale, la luce della forza che brilla dentro di me, mi rialzi e mi permetta di mettere di nuovo mano alle opere.
Quando mi mostro bisognoso davanti a Lui, Dio entra attraverso la fessura lasciata aperta dalla mia debolezza. Si alza al di sopra del muro che crolla nella mia accidia.
Mi costa pensare che Maria si rallegri solo quando le porto i miei piccoli successi. La cartella piena di buoni voti. Le gesta dei bambini quando consegnano ai genitori i loro scarabocchi.
Pensano che siano opere d’arte, e i loro genitori fanno vedere loro che sono i disegni più belli mai realizzati. Li esortano a continuare a fare scarabocchi. Sono gli scarabocchi che rallegrano di più.
Dio si stupisce di fronte alle mie opere goffe. Si rallegra anche dei miei insuccessi e delle mie ferite. Con le ginocchia insanguinate. Con i pantaloni rotti e sporchi dopo la battaglia della vita.
Per questo offro tutto a Maria lanciandolo in alto. Ella trasforma i miracoli di questa vita in grazie che offre a piene mani. E non le offre a me, come se questo fosse parte dello scambio, parte della giustizia. No, non funziona così. Ella le offre a chi crede ne abbia più bisogno.
Mi piace lo scambio. La mia debolezza in cambio di grazie per altri. Ciò che era sporco e povero, ciò che era vuoto e rotto, diventa fonte di vita per chi lo riceve. Adoro questa immagine. Dio dà senza che abbiamo fatto nulla per meritarlo.
La mia aspirazione all’ideale sboccia da un cuore spezzato, malato, fragile. Penso che la mia barca sia una barca spezzata. Non è un transatlantico capace di solcare grandi mari. Non riuscirò a fare con lui il giro del mondo.
La mia barca è spezzata. Ci entra l’acqua. E Gesù è lì.
Questo mi consola. Affondiamo insieme, ci salviamo insieme. Togliamo insieme l’acqua che ci bagna i piedi. Issiamo le vele lacerate.
Mettiamo bene il timone che a volte si muove come vuole essendo poco docile alla direzione stabilita. Raccogliamo i remi caduti in mezzo all’oceano. Gesù sulla mia barca. Io sulla sua.
Perché la mia barca è sua. O è la sua ad essere la mia barca. Non sono più capace di distinguerlo. So solo che la sua forza mi porta accanto a lui in mare. E la mia debolezza è la fessura attraverso la quale penetra la forza del suo fuoco.
Mi piacciono quegli ideali elevati che danno vento alle mie vele. Quegli ideali che sembrano irraggiungibili e per i quali sospiro. Mi piacciono quei sogni elevati che arrivano alle vette più alte.
Senza smettere di riconoscere la povertà dei miei passi, la debolezza delle mie braccia. Sostenendo la vela. Sostenendo il timone. Non importa. Gesù mi dà la sua forza e solchiamo i mari. Non ho paura, non tremo. O sì, non importa tanto. Quando ho paura guardo la stella, guardo i suoi occhi, e confido. Cammino, corro, mi alzo, aspetto, mi fermo. L’ideale mi conduce.
Dice padre Josef Kentenich: “Dovremmo sicuramente tagliare molte cose che fanno male, ma molte cose possono rimanere. ‘Ciascuno deve tracciare su di sé l’immagine di ciò che deve essere. Se non riesce a realizzarla, non soddisfa la sua aspirazione’, diceva Angelus Silesius. Ciascuno ha un determinato riflesso e impulso verso Dio, e a questo posso dedicarmi”.
Sogno le sue braccia che si adattano alla croce della mia vita spezzata, ferita, caduta. Sogno la sua vita mescolata alla debolezza della mia anima, confusa tra le mie passioni. Sogno il suo fuoco e la mia paglia che arde nelle sue mani senza consumarsi.
Sogno da sveglio e mentre dormo ciò che non sono e desidero, ciò che non possiedo, ciò a cui anelo soltanto. Sogno di aprire con i miei occhi i paesaggi più meravigliosi che Gesù sogna per me.
Cerco di disegnare nell’azzurro dell’oceano, con mano ferma. Voglio toccare con le mie dita le vette che ancora non scopro. Calpestare la loro neve. Non ho in mente niente che assomigli al sogno che vibra dentro. Come esprimerlo a parole?
Spero di toccare il cielo con le mie mani che non volano, ma so che se sono povero sono ricco quando ho Lui nella mia vita, nella mia barca spezzata, nella mia voce che grida tra le onde. E so che se sono debole, e mi rallegro delle mie debolezze, paradossi della vita!, la sua forza sarà la mia stella e le sue mani faranno da barca.
Mi sorprende la libertà di Paolo nel parlare della sua ferita e della sua spina. Una spina nella carne che segna i suoi passi. O li ferma. O rende più lenta la sua andatura. Si è scritto molto su questa spina. La grazia gli basta.
Ma chiede la liberazione. E la grazia deve bastargli. Si è parlato molto del significato di quella spina. Si è pensato a una malattia, o al dolore per i suoi figli che soffrivano o perdevano la fede, o agli insuccessi apostolici che ha sperimentato nelle chiese da lui fondate…
Non sappiamo bene a cosa si riferisse concretamente. Ciò che è certo è che ha chiesto a Dio ti togliergli quella spina tre volte. E tre volte ha sentito che la grazia di Dio gli bastava.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Aleteia
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