È fatta: con il dpcm 9 marzo 2020 l’Italia è definitivamente cristallizzata in una sola e unica zona rossa. Sembra un altro 11 settembre, con quel senso di smarrimento, di impotenza, di mancanza di libertà proprio come allora. Tutto si ferma. Anche la scuola che insieme a sanità ed economia è il settore più colpito. In queste ultime ore i docenti hanno vissuto la vertigine di doversi inventare un nuovo modo di interazione con i loro studenti. Video-lezioni, compiti assegnati — e riconsegnati — solo su web e via con tutto il resto. In tanti domina la voglia di fare, di non abbandonare il proprio posto e i propri ragazzi, la voglia di non darsi per vinti; ma c’è spazio anche per lo sconforto, per il fastidio di non sentirsi preparati a gestire tutto questo. Con il trascorrere delle ore, assistiamo però anche ad una sorta di normalizzazione, d’altronde siamo l’animale che si adatta più velocemente al mutare delle condizioni. Magari alla fine, avremo anche scoperto metodi e tecnologie nuove di cui prima ignoravamo l’esistenza. Ed è curioso, mentre si è a casa in sala, vedere materializzarsi negli schermi dei pc
le facce simpatiche di quindicenni divertiti al grido di «salve, prof!».Eppure, risolto il problema del canale comunicativo, dal punto di vista educativo non abbiamo ancora risolto un bel niente. Perché i nostri figli non hanno certo bisogno di sapere che esiste Google classroom o l’ennesima app con la quale studiare comodamente da casa (e della quale, peraltro, avrebbero fatto volentieri a meno). Hanno bisogno invece di vedere un’altra cosa, più antica, apparentemente più impalpabile degli stessi software, ma dagli effetti decisamente più dirompenti e duraturi; la conferma che, anche dentro a questo scompiglio, la vita vale la pena, che questa crisi in cui siamo affondati nasconde un senso, ancora misterioso, ma già presente. Hanno bisogno di scoprire che il vero compito assegnato, adesso, è andare alla ricerca di questo significato. È un compito per cui ci vorrà tutta la vita, ma il cui unico rischio è la salvezza e una trasmissione positiva alle generazione successive. Non molto lontano da dove sono nato, in provincia di Arezzo, nella pieve di San Pietro a Romena (XII
sec.), in uno dei capitelli, uno scultore ignoto ha inciso la scritta Tempore famis, volendo tramandarci una certezza, un onore e una dignità che oggi abbiamo smarrito. In tempo di fame. La gente moriva di fame e intanto edificava chiese e realizzava opere d’arte. Come scrive Guido Tonelli nel saggio Genesi, il grande racconto delle origini (Feltrinelli, 2019), se gli uomini delle caverne, nelle condizioni precarie in cui vivevano, sono stati disposti ad investire energie, risorse e tempo per realizzare le pitture rupestri, sottraendoli ad attività come la caccia, la costruzione di ripari e altre cose di più immediata utilità, ciò significa che proprio nelle condizioni più avverse è supremamente necessario scoprire e narrare un punto oltre la contingenza delle cose. Occorre individuare cioè un punto a cui ancorare la propria presenza nel mondo. Qualcosa che affermi il significato della nostra esistenza e del senso della fatica ad essa connessa.Questa è la speranza che nutro per i miei figli studenti e per tutti in questo particolarissimo tempo di fame; questo è l’augurio che faccio a loro e a tutti noi: trovare persone in grado di mostrare che anche in questa circostanza vale la pena affrontare la partita, perché siamo più del rischio di un contagio. Viviamo un tempo privilegiato, proprio perché non si può più perdere tempo. C’è da scoprire chi siamo e cosa sostiene il nostro essere qui ora. Tempore pestilentiae, e non è un’esercitazione.
di Alessandro Vergni / Osservatore Romano, 10/11 marzo 2020
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