Categorie: Ethica et Oeconomia

Come si può diventare ‘poveri in spirito’ ?

La povertà viene considerata un aspetto sostanziale del Vangelo, ma al contempo è difficile determinarne il punto di applicazione

L’evangelista Luca dice (6,20): “Beati voi poveri (ptokòi), perché vostro è il regno di Dio”. Matteo (5, 3) precisa: “Beati i poveri in spirito, perché vostro è il regno dei cieli”. “Oi ptokòi to pneumati”: la frase grammaticalmente consta di un aggettivo (povero) e di un sostantivo al dativo di relazione (spirito).

In forza di tale costruzione le qualità espresse dall’aggettivo (in questo caso la povertà) risiedono nel sostantivo (nel cuore, nello spirito). Dunque sono possedute non semplicemente col desiderio, ma realmente. Non è perciò la povertà che “si spiritualizza”, ma è lo spirito, cioè l’uomo, la persona umana che si impoverisce, che cioè acquista lo stato, il comportamento, la convinzione di un povero ideale.

La povertà viene considerata un aspetto sostanziale del Vangelo, ma al contempo è difficile determinarne il punto di applicazione. La prima soluzione estrema è definire la povertà evangelica esclusivamente come atteggiamento interiore di distacco. La seconda soluzione estrema è elevare a valore assoluto e supremo la privazione dei beni materiali.

Il Papa San Leone Magno spiega: “A quale sorta di poveri allude la verità? Forse potrebbero sorgere equivoci se dicendo “Beati ipoveri”, non aggiungesse nulla. Ma dicendo “Beati i poveri in spirito” insegna che sarà ricompensato con il Regno chi è raccomandato da un cuore umile più che dalla mancanza di mezzi. Né può esserci dubbio sul fatto che i poveri raggiungono il bene di questa umiltà più facilmente dei ricchi: spesso infatti alla privazione degli uni si accompagna la sottomissione, mentre alla ricchezza degli altri si accompagna la superbia. Eppure anche in molte persone facoltose si nota uno spirito che le porta ad usare delle proprie sostanze non già per se stessi ma per opere di bene, e a considerare immenso guadagno quanto spendono per alleviare le miserie e le sofferenze altrui”.

Poveri nello spirito, infatti, non si nasce, ma si diventa e si rimane a costo di immani sacrifici e continue rinunce contro le istintive aspirazioni dei sensi, le pretese dell’intelligenza, le irrisioni della sorte, le incomprensioni degli uomini.



Quando il giovane ricco udì l’invito di Gesù a lasciare tutto per seguirlo, “se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19,22). E’ questa anche la nostra storia personale, come è la storia della nostra civiltà?

“Occorre affrontare il nocciolo della questione, domandandoci positivamente in che cosa consista la povertà evangelica. L’errore sta nel volerla spiegare partendo da prospettive umane. Occorre tornare alla Scrittura ed interrogarsi sul significato della parola povero” (Jean Daniélou).

Il “povero” (‘ptokòs” greco / “pauper” dalla radice “pau” poco), dunque. non è il rassegnato ad una condizione di indigenza o di miseria. La povertà si definisce essenzialmente nella sua relazione con Dio e non anzitutto in relazione ai beni materiali o agli altri uomini. Il povero è colui che pone la volontà di Dio al di sopra di tutto, perché ha capito che Dio è preferibile a tutto. Esprime sfiducia nei beni materiali e nelle risorse personali ed insieme bisogno e desiderio di Dio e dei beni superiori. La povertà evangelica è libera anche dalla povertà e consiste nell’essere liberi da tutto, tranne che dalla volontà di Dio. La privazione sarà buona se voluta da Dio, ma lo sarà anche la prosperità se voluta da Dio.



Il biblista A. Gelin ammette che la prima beatitudine, nella sua formulazione originaria, non poteva parlare che di “poveri”, senza la precisazione “di spirito”. E spiega: “Si crederà con ciò che Gesù abbia beatificato una classe sociale? Nessuna categoria sociale è canonizzata; Nessuna, come tale, viene posta in rapporto diretto col Regno; soltanto una situazione “spirituale” può accogliere un dono spirituale; solo la fede confidente apre l’uomo alla grazia di Dio. E’ questa apertura a Dio che si chiama povertà spirituale. Che la povertà reale sia una strada privilegiata verso la povertà dell’anima, un terreno in cui più facilmente germoglia quest’ultima, che valga la pena accettarla e talvolta anche ricercarla, come avviene in montagna con le faticose marce di avvicinamento, tutto questo è vero e ripetuto nel Vangelo. Qui Gesù non dice di più di quanto non dica nel masal sulla cruna dell’ago (Mt. 19,24). Egli ha richiamato la condizione e il presupposto di un comportamento religioso. Non pensiamo dunque. a proposito (della prima beatitudine), anzi a sproposito, ai proletari. né a “coloro che si sentono nella miseria”. Per qual motivo queste situazioni sociali sarebbero meritorie per il cielo? Senza dire che l’uditorio di Gesù nel Discorso della Montagna comprendeva un certo numero di piccoli proprietari … il “povero” è il “cliente” di Dio, colui che ha scommesso su Dio, che non ha in se stesso il suo punto di appoggio, che è aperto verso Dio nella confidenza della fede” (A. Gelin).

La povertà di spirito ha un’accezione più estesa della povertà materiale, ma non può totalmente prescindere da questa.

Se la povertà evangelica consiste nell’essere liberi dai beni terreni, essere cioè in grado di usarne o non usarne, occorre conquistare questa libertà, contrastando la naturale inclinazione dell’uomo ad attaccarsi alle conoscenze, alla reputazione, ai piaceri, al denaro, all’ambizione. L’effettiva privazione di queste cose diventerà quindi un’ascesi necessaria. Nella vita consacrata tale liberazione dalle preoccupazioni terrene apparirà come una forma eminente della povertà evangelica. Ma solo una forma eminente. Venendo nel mondo, il Verbo di Dio non ha scelto per sé gli onori, le ricchezze e la prosperità. Pur non condannandoli, non li ha scelti, scegliendo gli obbrobri, le umiliazioni e le privazioni. Solo Lui aveva il diritto di fare questa scelta. E’ comprensibile che, attraverso i secoli, gli amici del Cristo abbiano desiderato condividere la sua sorte per essere più simili a Lui. Cosi avvenne per Francesco d’Assisi.

“Potrai cominciare a divenire povero alla Sua sequela accettando, come Lui, di ricevere tutto e donare tutto. Donare tutto per amore e ricevere tutto con umiltà. La prima tappa della tua pasqua di povertà passa dall’umile accettazione delle tue ricchezze (cultura, salute, amicizie, rapporti, ecc)… La seconda tappa è l’abbandono delle tue ricchezze materiali… La quarta tappa è l’impegno di una povertà affettiva (“’amori Christi nihil praeponere”. È il campo della castità perfetta)… La quinta tappa è la povertà spirituale (l’abbandono della propria volontà. E’ il campo dell’obbedienza)”(cf. Libro di vita delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme).

“È Gesù ancora a dire l’indicibile. Beati i poveri! Felici quelli che piangono! Ad annunciare l’opposto della nostra storia, a contraddire ogni nostra logica. Beati i poveri. Queste parole che credo di capire, che sono sicuro di non capire. Felici i poveri: e ogni volta provo la stessa soggezione davanti a questo Vangelo, la stessa paura di rovinare il messaggio. Le nostre parole lo velano, per quanto belle e appassionate: solo il silenzio, solo il puro ascolto ridà innocenza al cuore e verginità alla parola. Vogliamo essere felici? Vogliamo correre questo rischio? Cerchiamo allora in fondo al cuore il coraggio di essere poveri. L’audacia della povertà non come mancanza di qualcosa ma come qualità dello spirito. Ma allora semplifichiamo la vita. Prendiamo il coraggio di incamminarci verso l’impoverimento. Getta la maschera, scopri la tua nudità, riconosciti un volto di mendicante e ti scoprirai depositario di una catena infinita di doni: Dio ti regala la vita, Dio ti regala la luce e il calore, l’amico ti regala la gioia, il suo amore, la felicità; lo sconosciuto ti fa sentire vivo. Ogni uomo è una possibile fonte di ricchezza e tu diventi una benedizione per gli altri. Così la povertà diventa creatrice, la povertà diventa felice” (Ermes M. Ronchi).

Maria primeggia tra gli” “umili” e i ” poveri del Signore”. Ha cantato nel Magnificat: “Il Signore ha guardato l’umiltà – cioè la piccolezza, la “tapeinosin” – della sua serva”. Lo canta ora nel paradiso, perché finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell’universo” (LG, 59).

Card. Silvano Piovanelli




tratto da Aleteia (link all’articolo originale)

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