Il penitenziere maggiore Piacenza insiste sull’importanza delle pie pratiche tradizionali durante la Quaresima e su come la grazia opera in modo potente nei giorni del Triduo pasquale.
La Quaresima è un periodo forgiato dalle pratiche del digiuno, della carità e della preghiera. Rinunce, sacrifici e partecipazione alla Via Crucis sono gli strumenti che il fedele imbraccia per preparare più degnamente il cuore alla Pasqua, per partecipare alla salvezza che Cristo ci ha donato gratuitamente.
Per comprendere il senso profondo dei nostri gesti quaresimali e per viverli in modo più consapevole, ZENIT ha intervistato il card. Mauro Piacenza, penitenziere maggiore, preposto alla Penitenzieria Apostolica, il più antico dicastero della Chiesa Cattolica.
Il porporato sottolinea l’importanza delle pie pratiche tradizionali nel tempo di Quaresima, nonché il valore della confessione e della comunione nei giorni santi del Triduo pasquale.
Il tempo della Quaresima è tempo propizio di penitenza e riconciliazione. Che cosa suggerisce il Penitenziere Maggiore della Chiesa, per vivere al meglio questo tempo, sapendo che molti dei cosiddetti “poco praticanti” si avvicinano alla Chiesa in queste grandi occasioni?
Innanzitutto ringraziamo il Signore che, almeno nei tempi forti ed in occasione della domenica delle Palme (in Passione Domini) e della Santa Pasqua, molti fedeli sentono la necessità di avvicinarsi ai sacramenti. Certamente questa è ancora un’eredità dell’antica formazione dottrinale, secondo la quale era necessario confessarsi almeno una volta l’anno e comunicarsi almeno a Pasqua. In un contesto ancora culturalmente del tutto cristiano, erano certamente indicazioni utili. Oggi si tratta di comprendere l’enorme distanza che può crearsi tra fede e vita e, non sprecando queste occasioni tradizionali di riavvicinamento, trasformarle in “nuove partenze” per la fede. Fermo restando che la Confessione sacramentale è la sola vera ripartenza per ciascuno di noi! In ogni confessione il battezzato viene interiormente rinnovato, e la sua vita spirituale riparte, con tutti gli infiniti doni di grazia, che il Sacramento porta.
Perché la Chiesa insiste sulla confessione e sulla comunione pasquale?
La Pasqua è il centro dell’anno liturgico perché è il centro della nostra fede. Il fatto della Risurrezione di Gesù, della quale gli Apostoli sono testimoni e non certamente creatori, è alla radice dell’esistenza stessa del cristianesimo e solo alla luce della risurrezione si comprende l’identità divina di Gesù ed il mistero dell’Incarnazione del Logos. Questa centralità è sottolineata, da ben prima del Concilio Vaticano II, dall’invito a partecipare alla passione di Cristo attraverso la penitenza personale, a lasciarsi “lavare” dal sangue dell’Agnello, nel sacramento battesimale della riconciliazione, che dalla Croce scaturisce, ed a partecipare, perciò, alla Santa Messa, alla festa di nozze dell’Agnello. La confessione e la Santa Comunione hanno sempre uno straordinario valore capace di rinnovare l’uomo, ma celebrate a Pasqua hanno un valore spirituale e liturgico oggettivamente più evidente e, mi si permetta, anche un valore esorcistico.
In che senso esorcistico?
Tutti i sacramenti sono anche dei “grandi esorcismi”! Anzi, dogmaticamente parlando, gli esorcismi, come le benedizioni, sono dei sacramentali, che prendono forza solo dai sette sacramenti, i segni efficaci istituiti da Cristo, in modo diretto o tramite gli Apostoli, per prolungare la Sua presenza salvifica attraverso la Chiesa, fino alla fine della storia. Il peccato mortale è sempre una schiavitù, ed ogni volta che il sacerdote pronuncia la formula di assoluzione, il fedele è liberato dalla morsa del maligno e reintrodotto nella comunione piena con la vita trinitaria. Ogni confessore che abbia un po’ di esperienza, sa bene quanto si paghino, spiritualmente parlando, certe confessioni e come, proprio nei giorni santi del Triduo pasquale, la grazia operi potentemente ed il demonio sia, altrettanto potentemente, ancora sconfitto.
Che significato hanno, ai nostri giorni, le “devozioni quaresimali”? Le pie pratiche tradizionali dei venerdì di quaresima, della via Crucis, del digiuno e dell’astinenza, etc?
I termini “devozione” o “devozionale” hanno subìto un oggettivo svilimento nella comunicazione, sia pubblica sia ecclesiale, degli ultimi decenni. Essi fanno pensare a qualcosa di “vecchio”, di non attuale e, soprattutto, di “formale ed estrinseco”, non corrispondente al cuore intimo della persona. In realtà, la devotio latina era il rito con cui i generali offrivano, simbolicamente, la propria stessa vita, per la vittoria dell’esercito in battaglia. La devozione, o le devozioni, sono segni, talvolta semplici, attraverso i quali si può nutrire la fede. Come in un grande amore, non servono sempre proclami, ma i piccoli gesti quotidiani nutrono il rapporto, cosi accade con Dio. A condizione che Dio non sia ridotto ad un’idea o ad una morale, ma sia una persona viva e vera, con la quale relazionarsi. Per questo il disprezzo delle cosiddette “devozioni”, e soprattutto della devozione popolare, è sempre sospetto, perché potrebbe essere indice di una latente deriva gnostica, sempre possibile nel cristianesimo. È sempre bene stare lontani dagli “aristocraticismi” religiosi.
Consapevole di tutto questo, la Chiesa invita a compiere pii esercizi, come la Via Crucis, soprattutto proprio nel giorno di venerdì, il giorno della passione del Signore. Tali gesti, oltre ad essere vere e proprie soste che rinfrancano l’anima nel frenetico cammino delle nostre giornate, hanno lo scopo di esprimere la fede e di favorire l’immedesimazione, anche affettiva, con gli avvenimenti storici della salvezza e con i misteri che crediamo. È un rischio gravissimo ridurre la fede a mera questione intellettuale, coinvolgendo solo un aspetto della vita dell’uomo. Come afferma sant’Agostino, nell’omelia 26 (Commento a Giovanni), la fede è un toccare e: “che significa toccare, se non credere?”, intendendo la necessità del coinvolgimento integrale dell’uomo, nell’atto di volontà della fede.
Il digiuno, che coinvolge il corpo, la Via Crucis, che invita a camminare sulle orme del Signore, il silenzio, che permette al cuore di ascoltare davvero, sono tutti possibili gesti quaresimali, che sostengono la concretezza dell’atto di fede e ne corroborano l’oggettività. Del resto, nel nostro tempo, fatto di comunicazione e di trionfo del coinvolgimento e dell’immagine, sarebbe ben strano che, proprio la fede, che ha una pretesa totalizzante, venisse ridotta a mero intellettualismo, o ad una malintesa dimensione privatistica o spirituale. Infine, sono tutti gesti che favoriscono e nutrono un atteggiamento di profonda umiltà, cosi necessario all’uomo moderno, vittima del tecno-scientismo, e, comunque, a chiunque chieda perdono dei propri peccati e si accinga a celebrare il trionfo di Cristo sul male e sulla morte. Ripeto, le “pie pratiche devozionali”, sono gesti d’amore semplici, possibili a tutti, che però dicono molto della nostra fede. Ed ogni grande amore, si nutre di piccoli gesti. Sono carezze a Gesù crocifisso.
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Fonte: it.zenit.org
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