R. – La finalità è stata anzitutto quella di andare ad incontrare le persone sfollate e le famiglie sfollate, che hanno dovuto lasciare la loro terra e che sono stati cacciati, espulsi. E poi, come Pontificio Consiglio Cor Unum, essendo incaricati di tutte le agenzie di carità e di solidarietà, anche quella di andare a visitare queste Agenzie e gli operatori che lavorano lì, quindi in primis la Caritas e infatti era con noi anche il segretario generale della Caritas Internationalis, il dottor Michel Roy; il presidente della Caritas del Medio Oriente, il professor Farah. Quindi una delle nostre finalità era propria quella di visitare tutte gli operatori che stanno lavorando lì e che molte volte sono i più dimenticati, mentre invece sono le nostre braccia, perché noi non possiamo stare lì e non tutti possiamo andare lì ad aiutare. Noi abbiamo delle braccia, la Chiesa ha delle braccia che ci aiutano e che, con il nostro contributo, portano avanti dei programmi, che possono andare ad aiutarli e che possono incoraggiarli… Tante volte lavorano veramente in situazioni difficilissime.
D. – Come stanno operando?
R. – Appoggiati alla Chiesa locale, perché quelle sono realtà che, se non hai un appoggio locale, è molto difficile e molto complicato riuscire a capire, riuscire a capirne le dinamiche, le situazioni e le difficoltà. Per cui la Caritas Iraq ha preso in mano tutto il coordinamento di questa missione e lo fa in situazioni veramente difficili. Ci sono famiglie che sono state mandate vie dalle loro abitazioni e questo genera in loro anche un rancore, sviluppa una violenza che poi rischia di esplodere in tutti i sensi. Ci hanno parlato delle difficoltà, degli uomini che non lavorano e stanno tutto il giorno senza far niente… Sono situazioni molto complicate, che generano molte tensioni. Lavorare in queste situazioni – da quello che noi abbiamo capito e da quello che loro stessi ci hanno spiegato – è veramente difficile. Portare a queste persone – che sono lì, che stanno lavorando – il sostegno della Chiesa, a noi sembra veramente molto, molto importante anche per poter poi aiutare concretamente i poveri e per svolgere un lavoro che non sia semplicemente portare da mangiare o cercare di fornire loro un alloggio; ma portare anche qualche altra cosa, che è questa presenza del Signore, anche in questa situazione assurda e completamente ingiusta.
D. – Quale è stato l’itinerario della vostra missione lì in Iraq?
R. – Siamo arrivati a Erbil, nella zona curda, perché lì l’aeroporto è ancora aperto. Da lì ci siamo mossi verso il villaggio di Duhok, dove è presente la gran parte degli sfollati della Piana di Ninive: ci sono cristiani, ma anche non cristiani e appartenenti alle altre minoranze; ci sono soprattutto gli yazidi. Lì abbiamo visitato alcuni Campi e abbiamo potuto vedere alcuni dei progetti che sta facendo la Caritas Iraq, soprattutto riguardo al tema dell’educazione e della sanità, ma anche riguardo all’affitto di abitazione o alla costruzione di abitazioni per le famiglie: si cerca di dare anche una dignità abitativa, perché le tende tante volte non aiutano… Da lì siamo poi tornati a Erbil, dove abbiamo visitato altri tipi di Campi, composti da container o da palazzi ancora non terminati, che sono stati divisi con delle mura affinché vi possano alloggiare le famiglie. Abbiamo poi incontrato il vescovo di Erbil, così come in precedenza il vescovo di Duhok; abbiamo avuto anche incontri con le organizzazioni umanitarie che operano lì, quindi con la Caritas, con il Jrs dei Gesuiti, la Focsiv… Ci sono tantissime realtà che operano. Abbiamo avuto anche un incontro molto interessante con il rappresentante delle Nazioni Uniti, che ci ha illustrato tutta la situazione: le Nazioni Unite sono molto preoccupate, perché purtroppo stanno venendo meno i fondi e c’è il rischio di dover tagliare alcuni progetti. Approfitto di questa occasione per fare appello alla solidarietà dei cattolici, perché non dovremmo chiudere alcun progetto per mancanza di fondi. Credo che sia una situazione abbastanza complicata e dal punto di vista umanitario molto, molto grave.
D. – Avete portato anche la solidarietà di Papa Francesco?
R. –Sì. Il giorno prima di partire – il 25 marzo – sono andato con mons. Khaled Ayad Bishay, che è l’officiale della Congregazione delle Chiese orientale, con il quale abbiamo fatto questo viaggio. Abbiamo portato due icone della “Madonna che scioglie i nodi”, perché abbiamo capito che in Iraq e in tutta questa situazione ci sono tanti nodi da sciogliere: quale segno migliore se non portare la Madonna che scioglie i nodi? Quindi abbiamo portato questa Madonna benedetta dal Papa ai vescovi, ai rappresentanti di queste Chiese, di queste agenzie, di questi poveri, di questi sfollati. Il Papa, prima di partire, ci ha benedetto, ci ha incoraggiato ad andare e siamo andati lì con questa benedizione. Abbiamo portato, in questo tempo pasquale, la notizia che Cristo è risorto e che anche in una situazione così difficile – è un vero e proprio inferno quello che vivono tante famiglie – c’è sempre una luce, che è la Resurrezione di Cristo, che ha vinto la morte e ci ha fatto partecipi della sua vita immortale. Quindi abbiamo portato questo messaggio ai cristiani e abbiamo portato anche la speranza a chi non è cristiano di un futuro ritorno… Ma anche ritornare alle abitazioni che hanno lasciato adesso non è facile. Volevamo portare questa testimonianza e il Papa ci ha incoraggiato e ci ha inviato.
D. – Che cosa le ha lasciato questa esperienza e questa missione in Iraq?
R. – Io avevo vissuto già la guerra del Kosovo, quando ero il direttore della Caritas Albania: anche lì abbiamo dovuto accogliere gli sfollati che venivano dal Kosovo. E’ stato un po’ rivivere quel momento. Era la stessa situazione. Una famiglia che viene costretta a lasciare la propria casa, la propria vita, a prendere i propri bimbini e andare verso una terra che non conoscono; non sanno se saranno accolti o se non saranno accolti: è un dramma veramente enorme! Per una persona sola forse è diverso, ma per una famiglia è una cosa molto seria. Io ho vissuto la stessa situazione e mi ricordo quando arrivano dal Kosovo con i trattori, con il nonno, con la nonna, con i bambini; tutta la famiglia. Erano disperati per aver dovuto lasciare tutto. Subito dopo sono tornati e la stessa cosa accede qui: quello che desiderano è tornare, tornare nella loro casa. Tante volte ci dicevano: “Non sarà facile, perché spesso siamo stati denunciati anche dagli stessi vicini; siamo stati minacciati e costretti ad andare via dai nostri vicini, perché ci dicevano che quando sarebbe arrivato l’Is, ci avrebbero denunciato”. Quindi adesso tornare è una situazione complicata: qualcuno di loro, parlandoci, ci ha mostrato questa difficoltà di tornare. E’ veramente una situazione drammatica! Anche vedere questi bambini che, nonostante tutto, sono bambini e quindi sempre allegri, che corrono; si mettevano davanti a noi per fare le fotografie… E’ la vita. Però in questa vita che sorge c’è il dramma di un popolo che viene costretto a fuggire. Si parla di 2 milioni e mezzo di sfollati, senza parlare poi della Siria. Solo in Iraq! Sono molte persone, molte famiglie, molti drammi: li abbiamo toccati con mano, certamente poco, perché pochi sono stati i giorni che siamo stati lì; abbiamo toccato con mano la sofferenza di queste persone, di queste famiglie.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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