Il mondiale brasiliano ci ha consegnato l’immagine del bel calcio, stadi pieni, colorati e festanti, ma anche ambiguità irriducibili, clamorosamente emerse nella debacle della nazionale verdeoro. Quando il calcio smette di essere gioia e festa e diviene business, cade in una spirale che conduce alla desolazione e all’aridità. Esempio plateale, l’organizzazione societaria di molti club brasiliani e la loro gestione del mercato. Giocatori che appartengono a delle cordate azionarie, procuratori proprietari del cartellino dei loro assistiti, e quant’altro per far intendere che il calciatore è divenuto un prodotto commerciale da vendere al miglior offerente. Magari in campo gioca anche chi è più sponsorizzato o aiutato, fa niente se poi la squadra risulta disarticolata, senza legame fra i reparti, confusionaria e incapace di difendere. No comment circa la performance italiana, alla seconda eliminazione consecutiva alla fase a gironi. Ci auspichiamo che l’umiliazione possa essere opportunità di una conversione metodologica e di stile nel modo di approcciarsi all’evento calcio.
Che rimane dunque del mondiale brasiliano? Certamente il messaggio lanciato dalla Germania vincitrice: organizzazione, programmazione, attenzione ai giovani, spirito di gruppo. Essere squadra ed essere uniti, questo fa bene e questo consente di vincere. Dove invece si è puntato a mettere in vetrina i calciatori e dove non c’è stata continuità nel gioco di squadra, il tutto si è bloccato. Promosse l’Olanda, la Francia, il Costarica, la Colombia che hanno espresso un bel gioco. Ma il calcio è anche lo sport del limite sempre labile, una realtà cioè dove il frammento fa la differenza. Pensiamo al Messico eliminato negli ultimi secondi dall’Olanda, a rigori parati o trasformati per poco a fuorigioco visti o non visti. Insomma, cosa rimane dietro? Uomini con desideri, aspettative, sogni, speranze ma anche tanta fatica, impegno, sacrificio, poi a volte si vince e a volte si perde. Stessi sentimenti nel popolo delle tifoserie. Volti tristi e sconfortati e volti festanti e gioiosi sono stati il rovescio della stessa medaglia. Questo accade perché il calcio può divenire il riflesso di sentimenti di riscatto sociale, o un contenitore nel quale si convoglia un sano orgoglio sportivo e patriottico, e presenta innegabilmente fattori di unione e di coesione. Su questi ultimi si dovrà investire per favorire il dialogo fra i popoli e le culture, finanche fra le religioni.
Il calcio ci fa parlare e ci fa appassionare, con l’attuale rivoluzione mediatica e globalizzante accompagna e scandisce il ritmo delle settimane e delle giornate, tanto vale allora non demonizzare nulla ma rilanciare approfondendo la dimensione evangelizzatrice di questo sport, come modalità di lettura e rilettura della vita, ma anche come ricerca dei corretti paradigmi interpretativi. Per farlo occorrono competenza tecnico tattica ma anche uno sguardo in grado di perforare l’apparenza, illuminazione che va chiesta dall’Alto.
Verso nuove focalizzazioni
Appuntamento quindi a presto. L’Italia “chiama”. I motori si scaldano. Già il 28 luglio avremo i calendari della prossima stagione di A. Riflessioni a iosa, i fattori da analizzare con la nostra metodologia sono già molteplici: cosa intende dire Conte quando parla di “percezioni e sensazioni” che lo hanno portato all’abbandono? E’ giusto pagare 28,5 milioni di euro per Iturbe, come ha fatto la Roma? Che dire del Cesena che indosserà una maglia (rosa) per dedicarla a Pantani? O delle ricette Inzaghi per il nuovo Milan, con divieto dell’uso del telefonino e delle piattaforme social (che potranno essere riprese solo in serata)? Che dire anche dei ritiri? Che senso ha pensare solo ad una preparazione fisico tattica tralasciando quella spirituale? A cura di Giovanni Chifari
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